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Il paradosso dell’IA: il Mit smonta l’entusiasmo dei mercato. Vantaggi reali solo per il 5% delle imprese


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di Antonio Prigiobbo



La spinta degli investimenti e la crescita del mercato tech per eccellenza, il Nasdaq, hanno generato una bolla? I volumi alimentati dall’entusiasmo per la nuova grande frontiera – l’intelligenza artificiale generativa – rischiano di trasformare il sogno in un brusco risveglio. A confermarlo è un report del MIT di Boston, che ha dato lo scossone decisivo dopo le prime incertezze nate dal “contromercato” d’Oriente, con il caso della maggiore potenza e dei minori costi dell’AI cinese di DeepSeek.

Nel report “The GenAI Divide: State of AI in Business 2025”, il MIT lancia una critica che suona come un allarme: il 95% dei progetti di AI generativa nelle imprese non produce alcun ritorno economico.

Un dato che ha tirato il freno a mano sulla corsa agli investimenti in AI a Wall Street, trascinando al ribasso il Nasdaq e i titoli dei colossi tech. Nonostante i rilanci e gli annunci da Apple a Nvidia, spinti anche dall’amministrazione Trump, la vera domanda sul futuro e sull’evoluzione delle imprese resta aperta: perché l’AI non sta mantenendo le promesse di accelerazione?

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Paradossalmente il MIT rivela che il problema non è l’AI in sé. Non è la tecnologia a mancare, ma le aziende: incapaci di integrarla come vero motore nei processi reali. Manca un ridisegno dei processi, una cultura manageriale rinnovata, un re-design organizzativo capace di andare oltre strutture rigide e modelli obsoleti. Il risultato è un divario netto: da un lato chi riesce a trasformare e rifunzionalizzare processi e dati in valore; dall’altro chi resta impantanato nei laboratori di sperimentazione.

Il report fotografa così una fase di “immaturità operativa”: molte imprese e manager hanno fatto grandi proclami, ma hanno ottenuto poca innovazione concreta. Eppure, laddove l’AI viene adottata con metodo, visione e competenze, emergono segnali chiari di vantaggio competitivo: automazione dei processi, innovazione di prodotto, riduzione dei costi.

E se questo accade negli USA, la domanda è: cosa sta succedendo nelle imprese europee e italiane? La crescita c’è, ma pochi stanno davvero capendo come usare l’AI ridisegnando aziende, processi, funzioni, produzione e mercati.

Da analista e da designer esperto di design management e innovazione, la lezione del MIT è netta: l’AI non basta acquistarla o annunciarla. Va disegnata nei sistemi aziendali, come parte di un ecosistema più ampio fatto di persone, metodi e governance.

Avendo creato NAStartUp come palestra no profit di innovazione e startup, da oltre un anno ricevo sempre la stessa richiesta: “Hai un esperto di AI da assumere in azienda?” Oggi la leggo ovunque, anche online: “Assumiamo esperto AI”. E non parliamo solo di piccole realtà, ma anche di gruppi che fatturano centinaia di milioni.

La mia risposta non cambia: l’AI devono comprenderla e governarla la proprietà, gli amministratori delegati e i manager, coloro che disegnano i processi e ne seguono gli sviluppi, per applicarla dove serve davvero, non a valle.

L’AI infatti potenzia chi ha già esperienza e conoscenza dell’azienda e del mercato. L’ultimo arrivato, l’“esperto di AI”, non prenderà mai il governo della società. Né in Italia, né negli Stati Uniti.

Il vero divide, dunque, non è tecnologico ma culturale. E se l’Italia non riconosce subito questo nodo, rischia di perdere competitività. È la distanza tra chi cavalca l’AI come moda passeggera e chi la trasforma in leva concreta di cambiamento. L’esempio è sotto gli occhi di tutti: c’era chi vedeva in Internet una semplice vetrina, e chi lo usava per rivoluzionare processi di vendita e relazioni.

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E forse è proprio da qui che dobbiamo ripartire: non dall’AI come strumento magico, ma dall’AI come design dell’innovazione, capace di ridisegnare imprese e società.

 



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