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Oltre le regole: intelligenza artificiale, apprendimento e responsabilità nel tempo della disruption. Intervista all’Avv. Agostino Clemente.


Agostino Clemente è avvocato, socio dello studio Ughi e Nunziante e docente di Diritto Industriale presso l’Università degli Studi dell’Aquila. È patrocinante in Cassazione dal 2010 e ha una consolidata esperienza in materia di proprietà intellettuale e industriale, diritto delle nuove tecnologie, privacy, media, diritto societario e contenzioso, sia giudiziale che arbitrale. Membro del Comitato Internet Governance Forum, istituito presso il Dipartimento per la Trasformazione Digitale della Presidenza del Consiglio dei ministri, ha ricoperto anche altri incarichi istituzionali in ambito audiovisivo e digitale. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche e attivo nella formazione su privacy e diritto digitale.

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L’Avv. Agostino Clemente

Alla luce del nuovo regolamento sull’IA, che obbliga i datori di lavoro a formare i dipendenti sull’intelligenza artificiale, secondo lei è sufficiente una norma per garantire una cultura dell’innovazione diffusa nelle imprese? O serve anche un cambio di mentalità nella leadership?

L’introduzione dell’intelligenza artificiale nelle attività aziendali e personali rappresenta una delle innovazioni più dirompenti della storia dell’uomo. Non solo e non tanto per la sua portata innovativa, che credo sia confrontabile con altre invenzioni come la stampa, l’energia elettrica, i computer, internet, per menzionare solo alcune delle innovazioni più recenti ed impattanti. Dicevo: non solo per la portata innovativa, quanto per l’accelerazione della sua penetrazione nei processi quotidiani. Per la sua natura, infatti, l’IA si autoalimenta e quindi accelera enormemente il suo sviluppo. Ebbene, un’innovazione così potente dovrebbe comportare uno sforzo straordinario di formazione di quelli che andranno a guidare questa macchina nuova di zecca. Pensate ad un momento in cui fossero consegnate a tutti delle automobili sportive ultra veloci, tutte insieme in pochi giorni o mesi, e nessuno avesse la patente di guida!

La consapevolezza dell’importanza della patente per tutti non è mancata al legislatore europeo. Infatti l’AI Act, il regolamento europeo sull’intelligenza artificiale, insieme ai divieti degli strumenti di IA più pericolosi ha prescritto come primo obbligo,  l’unico finora già applicabile, proprio quello che impone ai datori di lavoro di “alfabetizzare” i propri dipendenti al fine di consentire loro, nel contempo, di cogliere le opportunità degli strumenti, e di evitare o almeno mitigare i rischi derivanti dal loro utilizzo.

Quindi una norma c’è. Lei mi chiede se basta. Probabilmente no. Io riscontro una diffusa sottovalutazione dell’impatto dirompente dell’IA. Si oscilla tra il terrore e la diffidenza di alcuni, e un certo spirito di nonchalance di altri, come di chi è abituato a cavarsela confidando nella buona sorte, e nella miope convinzione che potrà pure cambiare tutto, ma tanto nulla cambierà davvero.

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Avremmo bisogno di leadership visionarie e pragmatiche; e anche della consapevolezza della fertilità dell’investimento in formazione, consapevolezza che non c’è. E avremmo bisogno di bravi formatori. Non tanto per imparare i fondamenti del machine learning, quanto soprattutto per imparare a “guidare la macchina” e a conoscerne i segreti.  Per evitare malintesi provo a spiegarmi meglio: è senz’altro utile capire per quanto possibile quali siano i modi attraverso cui gli strumenti di intelligenza artificiale sono stati concepiti e realizzati. Inevitabilmente tale comprensione avrà luogo in misura diversa a seconda delle pre-competenze, delle conoscenze e dell’impegno profuso nell’apprendimento. Ma occorre fugare l’equivoco che soltanto chi disponga di queste pre-competenze informatiche potrà cimentarsi con l’intelligenza artificiale. Così come non è stato necessario conoscere l’informatica per usare computer e smart phone, così non sarà necessario per usare l’IA. Sarebbe utile conoscerne almeno i rudimenti, questo è senz’altro vero, ma non è indispensabile. Quella che è invece indispensabile è l’acquisizione delle conoscenze e delle competenze di base per “l’uso” dei nuovi strumenti, insieme alla consapevolezza dei pericoli e dei rischi che possono derivare sia nostro uso che dall’uso degli altri. Insomma qualcosa di analogo a quanto dobbiamo imparare per ottenere il rilascio della patente automobilistica. Non occorre diventare ingegneri meccanici o elettronici per saper guidare abbastanza bene un’automobile.

Lei ha parlato di un’educazione ancora troppo legata al modello della ripetizione, mentre l’IA richiede nuove competenze cognitive e critiche. Secondo Lei quali sono i ponti possibili tra il mondo della formazione e quello dell’impresa per colmare questo gap culturale?

Io da tempo sono fortemente critico nei confronti del modello educativo più diffuso, tanto più generalizzato man mano che si sale nei livelli scolastici fino all’università. Una didattica unidirezionale che trova alimento nelle modalità della valutazione scolastica e universitaria. E’ proprio nel momento della valutazione che si consolida e conferma il metodo di insegnamento: da un lato, la qualità che viene apprezzata di più è la “ripetizione” di quanto si è letto o ascoltato; dall’altro la valutazione si risolve per lo più in una “caccia all’errore” da parte dei docenti. Non è bravo chi “trova” un risultato (corretto, creativo, persuasivo, originale, eccetera), bensì chi commette meno “errori”. Non si promuovono obiettivi didattici ma si “giudica”. Una didattica deprimente e frustrante, a cui siamo tutti assuefatti.

Avremmo bisogno invece di coltivare lo spirito critico e la sperimentazione. Molti temono che l’intelligenza artificiale ci vizierà fornendoci il piatto pronto, cosicché il nostro cervello si impigrirà. Io credo che questo pericolo sia reale, ma soltanto se non sapremo imparare a cogliere invece le grandi opportunità che avremo a disposizione. L’IA sta potenziando la nostra capacità di trovare soluzioni e risposte: non una ma molteplici risposte, tutte insieme o comunque con poco sforzo. A noi toccherà saper scegliere la risposta migliore, perché più corretta, più elegante, più utile, e così via. E’ così che l’intelligenza “artificiale” renderà più fertile l’intelligenza personale: con lo stesso sforzo con cui ora troviamo una soluzione, nei prossimi mesi ne troveremo molteplici, tra le quali dovremo scegliere.

E’ evidente che chi saprà “scegliere meglio” avrà un grande vantaggio competitivo, e questo sarà vero per le persone, per le aziende, e anche per le amministrazioni pubbliche e i governi. Se i governi ne fossero consapevoli lancerebbero un grande piano di formazione, insieme ad un piano straordinario di investimenti; e non sprecherebbero energie per fare leggi-manifesto di cui non abbiamo bisogno, avendo già una legge europea.

Mi auguro che una risposta all’altezza delle sfide possa venire dal confronto tra il mondo delle imprese e quello della formazione, ma confesso di non avere molta fiducia nell’establishment attuale di entrambi i mondi. Non rinuncio però all’ottimismo della volontà e confido nei germogli presenti nelle imprese più innovative e nelle aree dell’innovazione sociale e delle start up, sia in campo aziendale che educativo.

Il parallelismo tra la maieutica socratica e il prompt engineering è molto affascinante: ma si può davvero parlare di apprendimento autentico se a “rispondere” è la macchina? In altre parole, cosa resta umano nella costruzione della conoscenza con l’IA?

In un mio recente intervento, poi pubblicato proprio su questa rivista, ho detto che l’arte del prompting è figlia della maieutica socratica. Lei coglie il limite di questo parallelismo suggestivo: la maieutica socratica aveva lo scopo immediato di generare l’apprendimento dell’allievo interrogato. In questo senso, l’arte dell’interrogare attraverso il prompting potrebbe migliorare il funzionamento della macchina ma non l’apprendimento degli allievi. Ma non è questo quello che intendevo: io mi riferivo effettivamente allo sviluppo della persona, non della macchina! Sono infatti convinto che l’esercizio della maieutica possa generare nuovi paradigmi dell’apprendimento e dell’esercizio del sapere. A mio avviso, infatti, lo scopo ultimo dell’arte maieutica non consiste tanto nel saper interrogare, nell’ottenere risposte, quanto invece nell’indurre l’allievo a porsi le domande.

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In altri termini, la maieutica mira a far acquisire agli allievi lo spirito della ricerca critica, della curiosità, dell’originalità. E allora, se questo è vero, la maieutica è l’arte di “imparare” attraverso le domande. Così come lo è il prompting: l’uso dell’intelligenza artificiale ci consente di interrogare, insistere, criticare; e soprattutto di selezionare le risposte. Queste sono le componenti più profonde e più intriganti della nostra intelligenza.

Lei sottolinea che l’innovazione senza diritti rischia di essere socialmente inaccettabile. A Suo parere, chi dovrebbe essere il garante della progettazione “by design” di tecnologie rispettose di trasparenza, equità e privacy? Il legislatore, le aziende, i professionisti?

Legislatori, aziende, utilizzatori, tutti dovrebbero pretendere una tecnologia che incorpori i diritti by design. Il rispetto dei diritti dovrebbe guidare la stessa ricerca tecnologica, non dovrebbe risolversi in toppe appiccicate ad una tecnologia sviluppata prescindendo da ogni valutazione di impatto. Naturalmente, però, tale incorporazione dei diritti non si esaurisce nella progettazione. Anche per le ragioni illustrate poc’anzi, è fondamentale altresì il modo in cui la tecnologia viene impiegata. A mio avviso molti rischi sono associati oggi, più che alla progettazione e comunque oltre alla progettazione, proprio all’impiego della tecnologia. Vale la metafora che proponevo all’inizio della nostra conversazione: ci stanno mettendo alla guida di macchine potentissime, senza chiederci la patente di guida. Le faccio un esempio: io oggi posso caricare su una chat intelligente (ChatGpt, Copilot, Gemini, e altre) l’immagine di una ferita o di una macchia cutanea e avere come risposta una diagnosi. Ora, sarebbe sbagliato, e anche potenzialmente rischioso, prescindere dalle indicazioni che ci fornisce la macchina. Mi risulta infatti che sia stato dimostrato che l’intelligenza artificiale sa leggere una tac o una mammografia come uno specialista di media competenza (o forse anche al di sopra della media). E ancor più questo sarà vero nei prossimi mesi. Ma sarebbe altrettanto sbagliato e pericoloso fidarci ciecamente delle risposte della macchina, senza considerare, ad esempio, che la foto potrebbe non essere accurata, che servirebbero delle immagini diacroniche e altre informazioni di contesto (ad esempio, le diverse immagini dovrebbero essere associate al tempo della loro acquisizione), e così via. E torniamo dunque al profilo strategico della formazione di cui abbiamo già parlato.

Aggiungo infine che “garante” del rispetto dei diritti dovrebbe essere poi anche un Garante vero, ossia un’autorità indipendente. Purtroppo, invece, in Italia si sta scegliendo di attribuire la funzione di controllo a due agenzie governative: ACN e AGID. Al di là dell’indubbio prestigio e della autorevolezza di tali agenzie, questa scelta è discutibile, sia perché la funzione di controllo non dovrebbe essere orientata (almeno potenzialmente) dalle maggioranze politiche contingenti; sia anche perché le amministrazioni pubbliche dovrebbero essere a loro volta “controllate”.

Se l’intelligenza artificiale può già oggi redigere pareri, estrarre norme e analizzare sentenze in tempo reale, quale sarà il valore aggiunto del giurista del futuro? E cosa dovrebbe imparare oggi uno studente di giurisprudenza che permanga rilevante un domani?

Come dicevo prima, le soluzioni utili sono il frutto della corretta impostazione del problema, della adeguata formulazione delle domande, e della accurata selezione delle risposte.

C’è poi il profilo sempre più rilevante del modo di offrire il risultato all’interlocutore, che sia il cliente o il giudice, o il collega di studio. Sarà sempre più importante curare l’output attraverso il legal design e la customer experience, dove il “customer” non è soltanto il cliente ma ogni interlocutore. Non bisogna focalizzare l’attenzione sui nostri compiti, bensì sulla percezione dei destinatari del nostro lavoro.

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Accadrà così che il ‘prodotto legale’ sarà decisamente diverso da quelli di oggi. Avremo prodotti culturali e professionali a cui oggi non siamo abituati, sebbene qualche tentativo pioneristico sia stato fatto. Penso ad esempio alla comparsa conclusionale interattiva progettata da Niccolò Parini e Giorgio Ferrari qualche tempo fa a Milano: un progetto di cui si è parlato molto per la sua originalità, che a mio parere diventerà lo standard quando l’IA consentirà di realizzare quel prodotto in poche ore e non più in diversi mesi.

Il cuore della formazione del giurista di domani sarà allora la capacità di tenere insieme tutto questo: lo spirito critico, l’attitudine al problem solving, la comprensione delle dinamiche dei fatti e dei diritti, la capacità di interrogare e di interrogarsi, l’argomentazione rigorosa e persuasiva, la curiosità, l’attenzione per l’interlocutore, il rigore nella ricerca delle fonti, la selezione delle risposte. Insomma tutte cose che oggi non vengono insegnate, naturalmente con fortunate eccezioni.



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