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Il lavoro non è più la soluzione alla povertà • Secondo Welfare


Lavoro e povertà. Per alcuni decenni, trovare il primo significava evitare la seconda.  Oggi, per molte persone, non è più così. Ed è un problema. 

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Per capire cosa siamo arrivati a questo punto, bisogna andare indietro nel tempo. “Sin dalla fase di sviluppo del welfare italiano, le politiche contro la povertà rimasero residuali”, scrivono le ricercatrici Chiara Agostini e Chiara Lodi Rizzini nel report Costruire un futuro più equo: il reddito minimo per combattere la povertà, recentemente realizzato da Percorsi di secondo welfare per l’associazione Nonna Roma. 

Nella fase di implementazione dello Stato Sociale nel secondo dopoguerra “la povertà si ridusse per effetto della crescita economica e dell’espansione di altre politiche sociali (come quelle previdenziali, sanitarie e dell’istruzione) che contribuirono a ridurne il rischio e a mitigare gli effetti quando essa si verificava, ma non ci fu una politica espressamente rivolta al contrasto all’indigenza”, prosegue il rapporto. La situazione cambia sul finire degli anni Novanta, quando il numero dei poveri e i loro bisogni mutano profondamente, principalmente per effetto dei flussi migratori, della crisi della famiglia come ammortizzatore sociale e della precarizzazione del lavoro.

Nasce il fenomeno del “lavoro povero”, che oggi è sempre più diffuso. In Italia, spiega l’Istat in un’analisi del 2023, esiste “un’elevata percentuale di lavoratori che, nonostante siano occupati, rischiano di cadere in povertà a causa di retribuzioni orarie troppo basse, o perché svolgono lavori precari o a tempo parziale”. Sono i cosiddetti working poor che, scrivono ancora Agostini e Lodi Rizzini, minano “una certezza su cui si era sempre basato il sistema: che il lavoro garantisse di non trovarsi in povertà”. 

Il contrasto alla povertà e l’attivazione lavorativa

“Le misure di contrasto alla povertà, in Italia come in altri Paesi europei sono state progressivamente orientate al paradigma dell’attivazione lavorativa, assumendo che buona parte dei beneficiari siano occupabili e che il lavoro garantisca automaticamente la fuoriuscita dall’indigenza”, recita un altro passaggio del report Costruire un futuro più equo. 

Un caso eclatante in tal senso è stato quello del Reddito di cittadinanza, approvato nel 2019 e ora abolito. Da un lato, è stata una misura di contrasto alla povertà senza precedenti per importi stanziati e beneficiari raggiunti. Dall’altro, è stata anche una misura contro la disoccupazione, che ha messo una forte enfasi proprio sull’attivazione lavorativa dei beneficiari. Nessuno potrà restare sul divano, tutti coloro che sono in grado di lavorare dovranno attivarsi”, dichiarò l’allora vicepresidente del Consiglio e ministro dello sviluppo economico e del lavoro Luigi Di Maio.  

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Un reddito minimo per un futuro più equo: la sfida aperta per l’Italia

Per Agostini e Lodi Rizzini, questo tipo di approccio, “che sovrappone politiche di contrasto all’indigenza e politiche del lavoro, costituisce una criticità”. “Il punto è trovare un equilibrio tra gli aiuti pubblici e i giusti incentivi al lavoro”, ragiona Andrea Garnero, economista del lavoro presso la Direzione per l’occupazione, il lavoro e gli affari sociali dell’OCSE. Garnero spiega, per esempio, che un sussidio con una durata più lunga può non spingere a cercare un’occupazione nell’immediato, ma consente anche di non prendere il primo lavoro che capita e questo “è un aspetto positivo sia dal punto di vista sociale sia per il funzionamento del mercato del lavoro”. 

Quando questo non avviene, il rischio è che le persone povere trovino occupazioni precarie, malpagate e, soprattutto per le donne su cui ricade ancora la maggior parte del lavoro di cura, inconciliabili con gli impegni familiari. E che quindi diventino sì lavoratori e lavoratrici, ma che rimangano comunque poveri e povere. 

“Il rischio c’è, senza dubbio”, commenta Katia Salemi, che lavora per il consorzio non-profit di agenzie per il lavoro Mestieri Lombardia. Il consorzio, nel 2023, ha preso in carico circa 6.800 persone in tutta la regione e, in attesa che i dati più aggiornati vengano presto pubblicati, dice di averne seguiti una cifra simile anche nel 2024. Salemi è la responsabile di una delle sedi milanesi del consorzio, che si occupa soprattutto di persone straniere e fragili. “Il nostro lavoro – aggiunge – è proprio preparare le persone per evitare che si ritrovino in certe situazioni, aiutarle a scegliere opportunità diverse”. E non è un compito facile. 

Quanti sono oggi i working poor

Per capire quanti sono i working poor, in Italia e in UE viene calcolata la percentuale di persone che lavorano e hanno un reddito disponibile equivalente inferiore alla soglia di rischio di povertà, fissata al 60% del reddito disponibile equivalente mediano nazionale (dopo i trasferimenti sociali).

Secondo i dati raccolti da Eurostat, nel 2024, il dato italiano è stato del 10,2%, in risalita rispetto al 9,9% dell’anno precedente, ma inferiore al picco di oltre il 12% registrato nel 2017 e nel 2018. L’Italia è sopra la media UE, più vicina alla Romania (ultima con 15,3%) che alla Finlandia (prima, col 2,8%), 

“Il dato 2024 segna un’inversione di tendenza rispetto agli anni precedenti. Credo possa essere legato alla perdita di potere d’acquisto dovuta all’inflazione, che non è ancora stata recuperata”, commenta Garnero. L’economista spiega che il lavoro povero è sostanzialmente “esploso” in seguito alla crisi finanziaria del 2007-2009 e poi è rimasto su valori elevati. “In Italia, parliamo sempre di circa un lavoratore su dieci, un valore superiore a quelli di Paesi a noi simili, come Francia o Germania”, aggiunge. 

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Inoltre, come riporta Ansa partendo sempre dai dati Eurostat, ad essere particolarmente colpiti dalla povertà lavorativa in Italia sono soprattutto i lavoratori indipendenti (17,2%) e le persone con la sola scuola dell’obbligo come titolo di studio (18,2%). Per quanto inferiori alla media nazionale, sono in aumento anche i dati relativi ai working poor dipendenti (8,4% nel 2024, in crescita di un decimo di punto percentuale) e a quelli con contratto a tempo pieno, passati dall’8,7% al 9%. 

“Il lavoro povero è in Italia un fenomeno multifattoriale e strutturale, ormai da parecchio tempo in crescita”, spiega Daniele Di Nunzio, responsabile dell’area ricerca della Fondazione Di Vittorio, della CGIL. 

A confermarlo sono anche i dati dell’ultimo rapporto di Caritas Italiana, che analizza l’operato della capillare rete nazionale di centri di ascolto dell’organizzazione cattolica. Caritas spiega che un fattore che accomuna la gran parte delle persone ascoltate “è la fragilità occupazionale, che si esprime per lo più in condizioni di disoccupazione (48,1%) e di “lavoro povero” (23%). Non è solo dunque la mancanza di un impiego che spinge a chiedere aiuto: di fatto quasi un beneficiario su quattro rientra nella categoria del working poor, con punte che arrivano al 26,1% in Toscana e al 28,4 in Piemonte”.

Tra i lavoratori poveri che si rivolgono ai centri di ascolto Caritas si contano per lo più persone di cittadinanza straniera (65%), uomini (51,6%); genitori (78%) e persone che abitano in affitto (76,6%).

Lavoro povero: le cause del fenomeno

Caritas Italiana indica anche le cause del fenomeno dei working poor: “l’ampia diffusione di occupazioni a bassa remunerazione e bassa qualifica, soprattutto nel terziario; il mancato rinnovo contrattuale e la proliferazione dei CCNL; la diffusa precarietà, la forte incidenza dei lavori irregolari e dei contratti non standard, soprattutto tra i giovani; il forte incremento del part-time involontario; la stagnazione dei salari; la forte incidenza delle nano imprese; il basso tasso di occupazione femminile (che incide sui modelli di famiglia monoreddito); le marcate differenze territoriali Nord-Sud; il dualismo tra lavoratori con contratti stabili e precari”. 

“Nel nostro paese c’è un problema di specializzazione produttiva che si concentra su filiere a basso valore aggiunto e una competizione fondata sull’abbassamento del costo del lavoro, con fenomeni diffusi di illegalità, precarietà, scarsa innovazione” sostiene Di Nunzio della Fondazione Di Vittorio, riferendosi a settori come l’edilizia, il turismo e l’agricoltura. “Il lavoro povero investe anche i servizi pubblici, dove le esternalizzazioni alimentano la creazione di lavoro povero, anche per compiti fondamentali come il lavoro di cura a domicilio”, aggiunge. La Fondazione della CGIL ha presentato lo scorso novembre i risultati del progetto “Contrasto al lavoro povero e dialogo sociale” e pubblicherà presto per Futura Editrice un volume intitolato “Il lavoro povero. Fattori di vulnerabilità e azioni di contrasto” con dati più approfonditi e con alcuni casi studio relativi proprio a settori citati da Di Nunzio. 

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Lavoro povero in Italia: il report del Forum Disuguaglianze e Diversità

Garnero dell’OCSE mette l’accento anche su altri aspetti del fenomeno. “Da un lato, e tanto più in un periodo di inflazione, c’è il grosso problema dei salari, dice, facendo riferimento anche al libro che ha appena pubblicato sul tema, “La questione salariale” (scritto col giornalista Roberto Maina per la casa editrice Egea). Dall’altro lato, e per l’economista sono le questioni più importanti, ci sono la sottoccupazione e la scarsa intensità di lavoro a livello familiare”. 

Il primo caso riguarda chi ha un’occupazione stagionale, un contratto part-time o a tempo determinato per pochi mesi ma vorrebbe lavorare di più. Il secondo, prosegue l’economista, tocca la questione femminile: “nonostante i livelli record di occupazione femminile raggiunti in questi ultimi mesi, rimane il fatto che solo poco più di una donna in età lavorativa su due lavori”. E questo porta molte famiglie a non avere un reddito sufficiente. “Il lavoro è stato per lungo tempo il modo per emanciparsi dalla povertà. È vero, ma è anche vero che questo valeva sostanzialmente solo per gli uomini: nel Dopoguerra, infatti, il modello sociale era quello per cui l’uomo che lavorava e la donna stava a casa”, riflette Garnero.

Fattori protettivi e referendum

Che fare allora, per contrastare il lavoro povero? Salemi di Mestieri Lombardia ci prova ogni giorno, col suo lavoro. A suo parere, è necessario cominciare alzando quelli che lei definisce i “fattori protettivi”

“Ciò significa formare le persone che cercano un’occupazione, raccontare loro cosa sono i contratti di lavoro seri, fare orientamento e bilanci di competenze, lavorare sulla loro autostima e sul loro valore, far capire quali competenze sono spendibili oggi. Insomma, inserirle nel mercato del lavoro con consapevolezza, spiega. Secondo Salemi, le occupazioni che portano ad essere working poor le persone fragili le trovano anche da sole. Basti pensare ai cosiddetti rider, i fattorini che consegnano il cibo a domicilio lavorando in condizioni molto precarie e difficili per le piattaforme di delivery, e che molto spesso sono cittadini stranieri. “Noi aiutiamo le persone a cercare postazioni lavorative diverse, meno precarie, più stabili, con contratti migliori. Soluzioni che, spesso, chi si rivolge a noi non troverebbe da solo”, conclude. 

Quello di Mestieri Lombardia è un impegno importante da parte di un ente non profit, che quindi fa parte a tutti gli effetti del secondo welfare. Da solo, però, non basta. Anche le organizzazioni sindacali possono fare molto. 

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Per contrastare il lavoro povero, secondo Di Nunzio, il sindacato può agire a diversi livelli. Da un lato, sostiene, “svolge un ruolo fondamentale nella contrattazione collettiva nazionale, nella definizione dei salari in relazione agli inquadramenti, ai profili professionali, alle retribuzioni minime e alle progressioni di carriera”. Dall’altro lato, però, con la contrattazione di secondo livello, può “gestire l’organizzazione del lavoro affinché ci sia una coerenza tra i salari, i tempi, la quantità di personale che svolge il lavoro, i regimi in full time e part-time, le opportunità di formazione”. Può, quindi, contribuire a limitare la sottoccupazione di cui parlava Garnero.

Working poor: le proposte degli esperti per contrastare la povertà lavorativa

Non solo. Agostini e Lodi Rizzini nel report dedicato al salario minimo sottolineano la necessità di avviare “una riflessione più generale sulla qualità del lavoro, sulla sua stabilità, sui salari e sulla conciliazione vita privata – vita lavorativa”. Per Di Nunzio, in tal senso, va combattuta “la precarietà sul lavoro che genera ricatto occupazionale e abbassamento dei salari” e, per questo, ritiene importanti i referendum promossi dalla CGIL in ambito lavorativo per i quali si voterà ad inizio giugno. 

Di Nunzio, infine, sottolinea “la necessità di un salario minimo. Nonostante l’UE abbia approvato una direttiva sul tema, il nostro Paese, insieme a Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia, rimane uno dei cinque Stati dell’Unione Europea senza una legge in materia. E dopo che, nell’ottobre del 2023, la Camera ha deliberato il rinvio in commissione lavoro della proposta di legge delle opposizioni per istituirne uno, il tema ha perso spazio nel dibattito nazionale. 

La sinergia di politiche che servirebbe

Quella di stabilire un salario minimo per legge era anche una delle opzioni prese in considerazione dal Gruppo di lavoro sul tema della povertà lavorativa istituito nel 2021 presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, allora guidato da Andrea Orlando. A coordinare il team di esperti era proprio Garnero che, sul finire di quell’anno, presentò una relazione con cinque proposte sul tema.

Le cinque proposte del Gruppo di lavoro coordinato da Garnero

  1. Garantire salari minimi adeguati (con tre possibili opzioni, tra cui una Legge sulla rappresentanza ed estensione erga omnes dei contratti collettivi, Un salario minimo per legge o delle sperimentazioni limitate a specifici settori);
  2. Aumentare il rispetto dei minimi salariali attraverso una più efficace vigilanza documentale;
  3. Introdurre un trasferimento rivolto esclusivamente a chi percepisce redditi da lavoro (in-work benefit);
  4. Incentivare il rispetto delle norme da parte delle aziende e aumentare la consapevolezza di lavoratori e imprese;
  5. Promuovere una revisione dell’indicatore europeo di povertà lavorativa a livello di Unione europea. 

“Erano interventi e misure concreti che il Ministero del lavoro avrebbe potuto mettere in pratica in tempi relativamente brevi”, ricorda l’economista. Se applicate, quelle idee non avrebbero risolto da sole un problema che è complesso e sfaccettato, ma erano una sinergia di politiche che avrebbe contribuito a migliorare la situazione. Però, spiega Garnero, “non si è fatto nulla”. 

Il Governo Draghi, di cui Orlando era Ministro, cadde meno pochi mesi dopo la presentazione della relazione del gruppo di esperti e le proposte fatte allora non sono state riprese dall’attuale esecutivo. Per Garnero, quindi “rimangono valide nel loro principio”, ma al contempo, “si può fare molto a livello locale e a livello di parti sociali, su tanti aspetti”. L’economista vede un certo dinamismo anche da parte di attori del secondo welfare o delle amministrazioni locali, che con essi lavorano a stretto contatto. Cita per esempio, la proposta di un Indice del lavoro dignitoso, formulata dalle ACLI lo scorso novembre oppure quella di un Milano living wage ideata dall’associazione Adesso! insieme al think tank Tortuga, di cui avevamo scritto anche su Percorsi di secondo welfare. 

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“Secondo me la prima cosa che gli attori del secondo welfare ma, più in generale, tutti gli attori coinvolti dovrebbero fare è, innanzitutto, impossessarsi del tema sul serio, sistematizzandolo e seguendolo con continuità, non in maniera spot, magari per il primo maggio”, conclude Garnero.

 

Foto di copertina: Paolo Feser, Unsplash





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