Credibilità, reputazione, standing, fiducia, riconoscibilità: tutti valori immateriali, difficili da definire e da quantificare in modo preciso. Eppure, molto spesso da questi valori dipende il successo o l’insuccesso di un’azienda, di un professionista, di un’attività economica. Siamo quindi di fronte a beni estremamente importanti, ma anche molto fragili, sempre in pericolo di trasformarsi in un controvalore. A volte possono bastare pochi giudizi negativi postati sul sito dell’azienda o sui social network per compromettere il successo di un’impresa o di un prodotto. Un rischio amplificato a dismisura dalle tecnologie digitali, che consentono comunicazioni sempre più veloci, pervasive, amplificate. Nel bene ma anche nel male.
Nasce probabilmente da questo contesto l’esigenza, sempre più sentita dalle aziende e dai loro consulenti (in particolare i dottori commercialisti), della certificazione delle competenze e delle qualità. La ricerca di un terreno solido su cui lavorare, che non possa essere messo in discussione da qualche post sui social, magari orchestrato da un concorrente. Non è un caso che il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti sia sceso in campo negli ultimi giorni con due documenti che affrontano aspetti particolari della tematica reputazionale: la certificazione volontaria della sostenibilità aziendale e il rating di legalità.
Si tratta in entrambi i casi di leve strategiche per migliorare il livello di fiducia nei confronti di banche, investitori, partner commerciali. In entrambi i casi è richiesto un impegno da parte dei vertici aziendali per completare il percorso di certificazione, ma una volta giunti al traguardo il risultato dovrebbe essere una facilitazione dell’accesso al credito, un miglioramento reputazionale, talvolta anche un’agevolazione nell’accesso ai bandi pubblici.
Infatti, nonostante l’obbligatorietà dei report Esg per le aziende di grandi dimensioni sia stata prorogata di qualche anno, i dottori commercialisti consigliano comunque di utilizzare la certificazione volontaria che dovrebbe garantire un vantaggio competitivo alle imprese, anche di piccole e medie dimensioni, a fronte di un impegno burocratico tutto sommato modesto. Si tratta comunque di uno standard di certificazione che dovrebbe essere riconosciuto formalmente entro giugno 2025 dalla Commissione europea, con tutte le ricadute positive che questo comporterà.
Altro discorso quello del rating di legalità che, pur a fronte di numeri di aziende certificate non ancora altissimi, ha comunque visto una crescita del 20% nel corso dell’anno passato, segno di un interesse crescente da parte delle imprese anche nei confronti di questo strumento. Che infatti sta mostrando aspetti di appetibilità sempre più concreti, non solo come capacità di rafforzare la compliance integrata con altri strumenti come i modelli organizzativi previsti dal dlgs 231/2001 e le richieste del codice della crisi d’impresa, ma anche come garanzia di un accesso facilitato al credito bancario già garantito dalla governance di alcune grandi banche come Intesa Sanpaolo e Unicredit.
La cosa più interessante di questo discorso è che comunque non stiamo parlando di obblighi, ma di opportunità, che possono essere valutate liberamente dal management aziendale e implementate se, per un motivo o per l’altro, se ne ravvisi l’utilità.
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