di Alberto Bianchi
Tra poche settimane, all’inizio del prossimo mese di giugno, sono previsti dei referendum, tra i quali spiccano quelli inerenti principalmente il mercato del lavoro interno e le condizioni dei lavoratori italiani, tra cui la richiesta di abrogare il Jobs Act. La raccolta delle firme per i suddetti referendum e la campagna referendaria in corso costituiscono – da qualche tempo a questa parte – la principale iniziativa di una parte del movimento sindacale confederale, CGIL e Uil in testa, a cui si sono aggiunte la Segreteria nazionale del Pd ed una parte della sinistra che esprime posizioni politiche estremiste e massimaliste. Anche il movimento 5Stelle di Conte è parte dello schieramento referendario.
Non mi addentro nella disamina dei contenuti specifici dei quesiti referendari che ho appena richiamato. Pongo piuttosto una questione di ordine politico più generale, che attiene al rapporto tra lo stato della sinistra politica, del movimento sindacale e dei lavoratori italiani, da un lato, ed il contesto nazionale e, soprattutto, internazionale in cui la battaglia e lo scontro referendari si trovano ad operare. E lo faccio prendendo le mosse proprio dalle questioni che i proponenti i referendum intendono risolvere, chiamando il popolo elettorale ad esprimersi con un sì o con un no.
Mi chiedo, senza molti giri di parole: il mercato del lavoro interno e le condizioni dei lavoratori italiani, compreso il nodo dei livelli salariali e delle buste paga, sono oggi seriamente sotto attacco dalle leggi che i referendum intendono abrogare o, piuttosto, dalla politica dei dazi con cui l’Amministrazione americana rischia di colpire l’economia europea e quella italiana e i lavoratori tutti del nostro continente?
Accenno solo ad alcuni aspetti ed impatti negativi che la guerra commerciale in corso tra le due sponde dell’Atlantico, innescata da Trump, potrebbe produrre:
1) impatto sulle esportazioni italiane: i dazi imposti dagli Stati Uniti rischiano di rendere meno competitivi i prodotti italiani sul mercato americano, riducendo la domanda e potenzialmente causando una contrazione della produzione industriale. Questo potrebbe portare a una diminuzione dell’occupazione e, di conseguenza, a una pressione al ribasso sui salari europei e di casa nostra;
2) i settori più colpiti: i nuovi dazi americani colpiscono in particolare l’acciaio, l’alluminio, il settore agroalimentare e quello automobilistico. Le aziende italiane che operano in questi settori potrebbero subire perdite economiche, con possibili conseguenze sui livelli retributivi dei lavoratori;
3) inflazione e costi di importazione: un altro effetto negativo potrebbe derivare dall’aumento dei prezzi dei beni importati, causando un’inflazione che riduce il potere d’acquisto dei salari. Se i costi di produzione aumentassero, le imprese potrebbero cercare di compensare riducendo i salari o limitando le assunzioni.
Solo una risposta politica forte dell’Unione Europea potrebbe riequilibrare o contenere o addirittura annullare gli effetti negativi dei dazi americani sull’economie dei paesi europei. Tuttavia, è chiaro che si va verso un quadro generare di tensioni commerciali ed economiche che possono influenzare negativamente il mercato del lavoro in Europa e in Italia. La guerra commerciale rende ancora più urgente una revisione delle politiche del lavoro per proteggere i salari e la stabilità occupazionale. In un contesto di incertezza economica globale, è urgente concentrarsi su misure di adattamento economico e rilancio della produzione europea e nazionale piuttosto che su una revisione normativa interna, per altro già ampiamente avvenuta nel recente passato, in cui si esaurirebbero gli effetti dei referendum.
Una sinistra che voglia essere riformista e di governo, costruendo una credibile alternativa al centro destra, è sulla dimensione continentale e nazionale della condizione e dei salari dei lavoratori europei ed italiani che deve impegnarsi ed ingaggiare una lotta politica tra e nei partiti.
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