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per le imprese il danno più grave non sono le sanzioni, ma la perdita di reputazione


Pochi giorni fa si è diffusa la notizia per cui lo scorso anno per la prima volta la Cina ha ridotto le sue emissioni di CO2 nonostante la sua economia abbia continuato a crescere a ritmi orma sconosciuti in questa parte del mondo. Una riduzione delle emissioni realizzata grazie al massiccio investimento sulle rinnovabili nella produzione di energia. La conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che siamo nel pieno della transizione dall’era dei fossili a quella delle rinnovabili (e dell’efficienza nell’uso delle risorse, aggiungerei). La conferma che se vogliamo affrontare la sfida della competizione globale, deve essere quella green la strada da battere: nella produzione di energia e nella promozione dell’economia circolare.

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Paradossalmente invece assistiamo dalle nostre parti (ma anche in Usa) a un feroce attacco politico al Green deal e anche le rappresentanze industriali sembrano più affannarsi nella difesa dello status quo fossile (o a inseguire improbabili chimere nucleari) piuttosto che spingere per avere norme, regole e incentivi che promuovano l’innovazione green. E in questo contesto aumenta il pericolo del greenwashing.

Per questo anche nella decima edizione di Circonomìa – il Festival dell’economia circolare che si terrà ad Alba dal 22 al 24 maggio, organizzato insieme alla Cooperativa Erica – dedicheremo un corso per giornalisti a questo fenomeno basato su un dossier che abbiamo realizzato per l’occasione.

Il greenwashing è emerso ormai da anni come una strategia di marketing per le aziende che desiderano apparire ecologiche senza implementare pratiche sostenibili reali. ​Un fenomeno che ha guadagnato slancio già sin dagli anni ’90, quando le aziende hanno iniziato a sfruttare l’attenzione crescente dei consumatori verso l’ambiente. ​Una pratica sleale pagata da consumatori “truffati” e da quelle aziende serie, che sul green puntano nel loro business e che della trasparenza fanno un must nella loro comunicazione.

E ancora un a volta dobbiamo ringraziare la tanto bistrattata Unione europea perché e lì che si sono iniziate a mettere a punto le contromisure legislative per combattere il greenwashing e garantire la trasparenza nelle dichiarazioni ambientali delle aziende: la direttiva ​per la “Responsabilizzazione dei consumatori per la sostenibilità” che dovremo recepire entro il marzo del 2026 e la fondamentale direttiva “Green claims” che stabilisce che le aziende devono fornire prove scientifiche per le loro affermazioni ambientali; che le etichette ambientali devono essere certificate da enti terzi, e le sanzioni per chi si fa pubblicità con dichiarazioni non verificate. ​

Ma la direttiva che è stata al centro del dibattito in Europa e in Italia negli ultimi mesi, a cavallo dell’inizio della nuova legislatura europea, è stata quella che stabilisce nuove normative sulla rendicontazione di sostenibilità: l’Unione europea ha introdotto la Corporate sustainability reporting directive (Csrd) per migliorare la trasparenza e la comparabilità delle informazioni sulla sostenibilità. ​Questa direttiva è fondamentale per contrastare il greenwashing. La Csrd è entrata in vigore il 5 gennaio 2023; introduce standard europei uniformi per la rendicontazione di sostenibilità e stabilisce che le aziende devono rendicontare sia gli impatti finanziari della sostenibilità sia gli impatti ambientali. Sacrosanto. Ma ci si è resi conto che gli obblighi di rendicontazione potevano essere sin troppo difficili da implementare soprattutto per le piccole e medie imprese e così le più recenti proposte legislative dell’Ue – Stop the clock – pur mantenendo tutti gli obblighi di rendicontazione per le aziende più grandi, quotate in borsa, prorogano molte scadenze e mirano a semplificare le normative. Forse era inevitabile, ma suscitano anche qualche preoccupazione riguardo all’efficacia delle misure contro il greenwashing. Le modifiche potrebbero indebolire il quadro normativo esistente.

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Nel frattempo per fortuna non tutto è fermo nel nostro Paese: Ispra ha istituito una task force contro il greenwashing per supportare operatori finanziari e autorità, e anche la Consob ha pubblicato raccomandazioni per garantire la trasparenza nelle pratiche di investimento sostenibile.

Siamo comunque ancora in una fase di transizione e non c’è dubbio che il danno più grave – per le aziende che finiscono in vicende controverse che si potrebbero configurare come greenwashing – si paga, prima ancora delle eventuali sanzioni, in termini di reputazione.

Pera fare solo i nomi di quelli più noti pensiamo a  Eni, che fu multata di 5 milioni di euro per pubblicità ingannevole riguardante il carburante Eni Diesel+; a Ferrarelle che ricevette una sanzione di 30.000 euro per affermazioni fuorvianti sul suo impatto ambientale; a Nestlé che in Germania ha ricevuto il premio per la “peggior bugia ambientale” per la sua campagna #UnterwegsNachBesser; a McDonald’s che è stata criticata per la campagna “I am beautiful” che promuoveva imballaggi usa e getta come sostenibili; a Volkswagen e Bmw coinvolti nel “Dieselgate”; a Coca-Cola che è stata criticata per affermazioni ingannevoli sulla plastica riciclata; all’eclatante caso di ExxonMobil, sotto inchiesta per aver ingannato su cambiamenti climatici e combustibili fossili.

Le uniche cure contro questa vera e propria malattia che è il greenwashing restano allora quelle di accompagnare il processo legislativo che darà gli strumenti di misurazione, con un’attenzione sempre più vigile da parte dei consumatori, e da uno sforzo di massima trasparenza da parte delle imprese serie.



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