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Restare o partire? Il dilemma dei giovani nel cratere sismico


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In questo giornale più volte, recentemente, si è parlato delle Aree Interne e di come fare in modo che non si desertifichino nel corso dei prossimi anni. Non c’è dubbio che nel cuore dell’Italia centrale, dove il paesaggio è un bellissimo fondersi di borghi antichi e montagne affascinanti, si consuma da anni un esodo silenzioso. È quello dei giovani, e i numeri lo dimostrano. Se nel 2005 nei 138 comuni del cratere sismico vivevano circa 120.000 giovani under 35 (dati ISTAT stimati), nel 2024 la cifra si è ridotta a poco più di 85.000. Le ragazze ed i ragazzi, specialmente dopo il sisma del 2016, hanno lasciato le aree del cratere in cerca di un futuro altrove. Un’emorragia causata da anni di politiche inadeguate, ritardi amministrativi e servizi smantellati. Scuole chiuse, vie di comunicazione e trasporti carenti, connessioni digitali inaffidabili: tutto ciò rende la permanenza nei territori interni non solo difficile, ma spesso insostenibile. In questo presente frammentato, dove la ricostruzione materiale procede con lentezza, nonostante l’impegno indiscutibile ed encomiabile dell’attuale Commissario Straordinario, resta la domanda di come fare in modo che i giovani restino o tornino. Perché senza di loro questi territori rischiano di diventare scenografie vuote: borghi restaurati per il turismo estivo, spesso mordi e fuggi, ma privi di vita durante l’inverno. E se oggi qualche giovane ha ancora il coraggio di restare, è perché crede in qualcosa di più grande. La verità è che restare oggi nei Comuni del cratere è una scelta che comporta sacrifici enormi. E la retorica dell’eroismo giovanile non basta più. Servono politiche serie, coordinate, territorializzate e stabili nel lungo periodo. Serve investire davvero nelle scuole che funzionino da presidi culturali e sociali, nella sanità di prossimità e nelle infrastrutture fisiche (strade) e digitali. Serve una fiscalità fortemente agevolata e strutturale, non sperimentale, per chi investe nelle aree interne ma anche per chi già da tempo mantiene la propria impresa in questi territori. Servono consistenti incentivi per le start-up innovative e per il ritorno di competenze, ad esempio il sostegno all’imprenditoria femminile e giovanile di rientro. Serve incentivare (sussidi) chi contribuisce a mantenere vivo un territorio anche solo occupandosi di salvaguardare la natura mantenendo un presidio abitativo, pensiamo alla pulizia di campi e boschi. Serve sostenere la formazione per insegnare a fare lavori caratterizzanti queste zone. Serve non sprecare soldi con iniziative a pioggia e infrastrutture inutili ma, invece, impiegarli con una visione strategica e selettiva. Però, prima di tutto, serve ascoltare i giovani non solo come testimonial, ma come interlocutori “politici”. E’ evidente che il problema è enorme e che si sarebbe dovuto affrontare molti anni fa quando lo scenario attuale era già prevedibile ma ancora non conclamato, nel frattempo il susseguirsi di anni con eventi negativi di rilevanza mondiale e locale, dalla crisi finanziaria ed economica del 2008 alla odierna terza guerra mondiale a pezzi, passando per i terremoti ed il Covid, non hanno aiutato. Tutte queste situazioni hanno “distratto” la politica ed indirizzato le risorse verso la soluzione di altri problemi. Però tra le macerie, si possono e devono fare strada segnali di cambiamento. In alcuni territori si sperimenta con coraggio una nuova idea di rinascita, che coniuga tradizione e innovazione. E al centro ci possono essere i giovani. Oggi le aree interne possono diventare spazi di opportunità, soprattutto se si scommetterà su ciò che può renderle vive e connesse: il digitale e le nuove tecnologie, l’imprenditoria innovativa e i modelli di sviluppo (eco)sostenibile. La digitalizzazione può diventare la vera infrastruttura della permanenza. Laddove un tempo l’isolamento era una condanna, oggi può diventare valore, se connesso al mondo. Smart working, incubatori rurali, piattaforme di economia collaborativa, filiere innovative, e-learning: tutto questo può permettere ai giovani di lavorare, studiare e fare impresa restando nei luoghi in cui sono nati o scelgono di vivere. Ma non basta l’iniziativa individuale. Servono politiche pubbliche integrate e lungimiranti molto più forti di quelle già in atto. Le università, in questo contesto, possono diventare alleate preziose: attivare corsi decentrati nei territori colpiti, sviluppare progetti di ricerca applicata, creare collaborazioni tra studenti, imprese e pubbliche amministrazioni. Fondamentale anche il ruolo delle associazioni locali e dei centri di innovazione e trasferimento tecnologico, che possono funzionare da “antenne” e da hub per intercettare le esigenze dei giovani, formare competenze digitali, accompagnare idee in impresa. Si cita un esempio che deve diventare nel prossimo biennio una best practice. Università Politecnica delle Marche, come capofila, insieme ad Università di Urbino, Università di Camerino e Nextlab srl, hanno costituito un centro di Trasferimento Tecnologico nell’area fermana del cratere (paesi di Montegiorgio e Massa Fermana) per favorire l’innovazione del tessuto imprenditoriale già presente e per facilitare la nascita di nuove imprese ad alto potenziale di crescita. Il Centro si chiama Fermo Tech Extended, ed è collegato al laboratorio Fermo Tech già attivo nel capoluogo di provincia. Si investiranno 5 milioni per formare giovani e supportare la transizione digitale e l’adozione di tecnologie avanzate. Saranno coinvolti giovani ricercatori del territorio per costituire il team operativo del Centro stesso. Ecco la vera sfida: non solo ricostruire case, che rischiano di rimanere vuote, ma ricostruire la fiducia, in special modo dei giovani dando loro una ragione intrigante e convincente per restare o tornare. Senza questo, il futuro delle Aree Interne del cratere, e non solo, resterà molto critico.

*Referente Trasferimento Tecnologico e Direttore DIISM, Università Politecnica delle Marche​





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