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stop all’AI Act, libertà d’innovazione


Nel cuore di Monte Citorio, le giovani imprese innovative hanno chiesto una tregua regolatoria che consenta all’Intelligenza Artificiale di prosperare senza restare imbrigliata dalle maglie della burocrazia europea. L’invocazione è chiara: un fermo temporaneo all’AI Act per salvaguardare competitività e occupazione.

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Un appello corale per un’innovazione libera

La conferenza “L’IA è futuro, non burocrazia”, promossa dall’On. Andrea Volpi nella Sala Stampa della Camera, ha riunito il 30 giugno 2025 le voci più rappresentative dell’ecosistema tecnologico nazionale. Gabriele Ferrieri, Lorenzo Luce, Marco Scioli, Manila Di Giovanni e Fabio Vantaggiato hanno delineato, davanti a imprenditori e parlamentari, un quadro nel quale le opportunità offerte dall’IA rischiano di essere soffocate da norme eccessivamente prescrittive. Nell’arco della mattinata si è ripetuto un leitmotiv inequivocabile: l’Europa deve ascoltare chi l’innovazione la produce, prima che questa migri altrove.

L’On. Volpi, componente della XI Commissione Lavoro pubblico e privato, ha ribadito l’urgenza di una regolazione “snella e abilitante”. A suo giudizio, rinviare l’applicazione dell’AI Act non significa aggirare regole, ma garantirne la sostenibilità per start-up con risorse limitate. Il timore di assistere a una delocalizzazione di progetti strategici è concreto, poiché la rigidità normativa potrebbe spingere talenti e capitali verso contesti giuridici più accoglienti, erodendo il potenziale di crescita interno.

Criticità operative e timori per la competitività

Il Presidente ANGI, Gabriele Ferrieri, ha illustrato numeri allarmanti: alle aziende europee resterebbero appena otto mesi per recepire oltre trentacinque standard tecnici, mentre l’adeguamento medio a un solo standard richiede fino a due anni. La sproporzione tra oneri e tempistiche rischia di trasformare la conformità in un impegno ingestibile, costringendo le imprese a sacrificare risorse destinate alla ricerca. Documentazioni corpose, audit reiterati e personale dedicato alla compliance potrebbero così distogliere investimenti cruciali dallo sviluppo di soluzioni d’avanguardia.

Dal canto suo Marco Scioli, a capo di Starting Finance, ha richiamato l’attenzione sulla crescente diffidenza verso il rischio imprenditoriale in Europa. Modelli di business emergenti si scontrano quotidianamente con regole concepite in epoche precedenti, poco attente alla rapidità evolutiva del digitale. L’assenza di strumenti finanziari adeguati e costi regolatori sproporzionati, soprattutto per realtà neonate, potrebbero frenare l’irruzione di idee capaci di generare valore economico e sociale.

Il rischio di un ecosistema frammentato

Secondo Lorenzo Luce, CEO di BigProfiles, l’AI Act reca nobili intenti – tutela dei diritti, trasparenza, sicurezza – ma si traduce, nella pratica, in obblighi gravosi. Il 70 percento del fatturato della sua azienda proviene già dall’estero; qualora la normativa imponesse ulteriori ostacoli, l’Europa diventerebbe un mercato secondario. La prospettiva di sanzioni rilevanti genera incertezza, scoraggiando l’esplorazione di soluzioni innovative e persino la loro semplice sperimentazione.

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In ambito sanitario, Fabio Vantaggiato ha ricordato che l’IA è ormai presente negli ospedali italiani, dove medici e infermieri utilizzano strumenti basati su algoritmi generativi. Eppure gli investimenti restano modesti e la burocrazia eccessiva rischia di lasciar sfumare un vantaggio competitivo decisivo. Affidarsi a tecnologie importate significherebbe perdere l’occasione di costruire una sanità intelligente fondata su dati, competenze e valori nazionali.

Verso una pausa regolatoria di ventiquattro mesi

Al termine dei lavori, le start-up hanno avanzato una proposta concreta: avviare uno “Stop-the-clock” di ventiquattro mesi per l’AI Act. Tale lasso di tempo consentirebbe a legislatori, imprese e società civile di esaminare congiuntamente le criticità, calibrare gli standard e definire percorsi di adeguamento sostenibili. La richiesta non è un rifiuto della normativa, bensì la pretesa di norme realmente applicabili, cucite sulle dinamiche di un settore in costante metamorfosi.

I relatori hanno concluso sottolineando che, mentre Regno Unito, Giappone, Emirati Arabi, Arabia Saudita e Singapore adottano approcci più flessibili per attrarre talenti, l’Unione europea corre il rischio di restare spettatrice del progresso tecnologico. L’Italia, culla di ingegno e creatività, non può permettersi di arretrare. Garantire un quadro regolatorio equilibrato significa proteggere interessi nazionali, favorire lo sviluppo sostenibile e, soprattutto, preservare l’occupazione dei giovani protagonisti dell’innovazione. Il tempo per decidere è ora.



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