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Pnrr, il governo riscrive il Piano a colpi di revisioni: dietro la propaganda, un Recovery al collasso


A un anno dalla scadenza ufficiale del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il governo Meloni continua a raccontare un successo che non regge alla prova dei numeri. Il 46% delle scadenze italiane risulta ancora incompiuto; il dato sale al 54% solo includendo traguardi non ancora ufficialmente validati dalla Commissione europea. Nessun primato, nessuna accelerazione: Francia, Danimarca e Germania restano più avanti. E l’Italia ha già presentato cinque revisioni del piano, con una sesta attesa in autunno. Una riscrittura continua, segno evidente di instabilità e navigazione a vista.

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Intanto, il governo celebra lo sblocco della settima rata da 18,3 miliardi e la richiesta dell’ottava da 12,8 miliardi come tappe epocali. Ma sono risultati arrivati in ritardo, ottenuti solo dopo mesi di trattative e aggiustamenti. La spesa effettiva è ancora largamente insufficiente: a febbraio 2025 era stato utilizzato solo un terzo delle risorse. L’avanzamento odierno è frutto di tagli, semplificazioni forzate e rinunce, non di una reale efficienza. Alcuni interventi sono stati cancellati in silenzio, altri ridimensionati al minimo per rispettare i requisiti formali.

Da piano di rilancio a piano di contenimento

A livello europeo il quadro non è migliore: come racconta Openpolis oltre il 51% delle risorse RRF resta da erogare, e il 68% dei traguardi è ancora da completare. Ma l’Italia si distingue per la quantità di modifiche e per la fragilità attuativa. L’approccio “performance-based” del Recovery – fondi erogati solo al raggiungimento di obiettivi – ha messo in crisi la macchina amministrativa. Le priorità originarie del Pnrr italiano – ridurre i divari territoriali, di genere e generazionali – sono ormai sullo sfondo. Il governo si limita a potenziare le misure che hanno funzionato, come il credito d’imposta e gli incentivi alle imprese, e a cancellare quelle più complesse.

La Commissione europea ha escluso una proroga oltre il 2026. Tutti i progetti dovranno essere completati entro il 31 agosto di quell’anno. Per rispettare i tempi, molti interventi verranno spezzettati: solo le parti realizzabili resteranno nel Pnrr, il resto sarà rimandato a ipotetici fondi futuri. Intanto, cresce l’ipotesi di dirottare una parte dei fondi inutilizzati verso il comparto militare europeo. Una svolta che l’esecutivo Meloni sembra intenzionato ad accogliere. Con l’obiettivo non dichiarato ma evidente di salvare le risorse a ogni costo, anche a scapito delle finalità iniziali.

La narrazione non basta

Il governo ha fatto una scelta chiara: annunciare traguardi, oscurare i problemi. Ma la struttura del piano scricchiola. I ritardi generano costi finanziari aggiuntivi: la Commissione ha già emesso prestiti sui mercati per finanziare il Recovery, ma i fondi fermi producono interessi che gravano sull’intero bilancio europeo. Anche per questo Bruxelles ha invitato i governi a tagliare ciò che non è realizzabile e a concentrarsi su misure più snelle. Non è una strategia: è una ritirata tecnica.

Nessuna rimodulazione è prevista sui 122,6 miliardi richiesti in prestito, che potrebbero restare in parte inutilizzati. Le grandi opere sono ridotte a lotti minimi, alcune riforme non partiranno mai. La retorica del primato serve solo a mascherare il ridimensionamento. In gioco non c’è solo la spesa dei fondi: c’è la credibilità di un governo che ha fatto del Pnrr il pilastro della propria narrazione e ora ne teme il bilancio. La trasformazione del Paese è rimasta sulla carta. E il rischio, oggi più che mai, è che la rincorsa finale serva solo a chiudere i conti, non a cambiare la direzione.

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