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Scoppia l’esenzione dalla tassa del 15% per le imprese americane


In un’intervista pubblicata sul Corriere della Sera il primo luglio, Manfred Weber, presidente e capogruppo del Ppe al Parlamento europeo, aveva ricordato le linee rosse da non oltrepassare nel negoziato sui dazi con gli Stati Uniti, perché “le regole su cui si basa il mercato unico non vengono stabilite nelle sedi delle grandi aziende della Silicon Valley e nemmeno alla Casa Bianca. Vengono stabilite dal Parlamento europeo”. Tutto bene, tutto chiaro, se non che il giorno precedente i sette ‘grandi’ – USA, Canada, Giappone, UK, Germania, Francia e Italia – avevano deliberato di esentare dalla tassa globale del 15% (il ‘Pillar Two’ dell’accordo OCSE/G20 sulla tassazione delle multinazionali) proprio le aziende americane. E solo loro.

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La commistione tra servizi digitali, tariff e dazi

Gli USA, dal canto loro, si sono impegnati a ritirare la minaccia di imporre le cosiddette ‘tasse di ritorsione’ (ad esempio, la Sezione 899 dell’OBBB ‘One Big Beautiful Bill’) sulle imprese di quei paesi che avrebbero applicato la tassa minima globale alle aziende statunitensi.

Ma che cosa c’entrano i dazi con tutto ciò? In teoria, molto poco. In pratica molto, perché le aziende digitali statunitensi sono quelle che in teoria potrebbero vedersi caricare i dazi di ritorsione, se Donald Trump confermasse l’imposizione di dazi sulle importazioni europee, nonostante le trattativa in corso tra UE e Usa prosegua. E non è certamente una strategia vincente quella di rinunciare alle proprie armi mentre ancora si sta discutendo.

D’altra parte non può essere una linea di resistenza eroica quella da cui il Canada si è bellamente sfilato, con il ministro delle Finanze, François-Philippe Champagne, che ha annunciato la revoca della Digital Services Tax (Dst) nei confronti delle big tech americane, in previsione di un accordo commerciale reciprocamente vantaggioso con gli Stati Uniti. Coerentemente con questa azione, il primo ministro canadese, Mark Carney, e il presidente degli Usa, Donald Trump, hanno concordato che le parti riprenderanno i negoziati con l’obiettivo di trovare un accordo sui dazi entro il 21 luglio 2025. Tutto ben specificato in nota ufficiale diffusa dal ministero delle Finanze di Ottawa.

I pro e i contro delle posizioni di Italia, Francia e Germania

La minaccia di tariffe punitive da parte degli Stati Uniti era reale e avrebbe potuto avere un impatto devastante sulle economie europee. Concedere questa esenzione è stato un modo per disinnescare una potenziale escalation commerciale e proteggere le proprie imprese da ulteriori oneri.

In più, nonostante la ‘falla’ per le aziende statunitensi, l’accordo G7 sul Pillar Two è comunque visto come un passo avanti verso una maggiore equità fiscale globale e la lotta all’erosione della base imponibile e al trasferimento dei profitti (BEPS). Preservare questo quadro, anche con compromesso, è stato ritenuto preferibile a un suo totale collasso.

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Inoltre, gli USA sostengono che le loro attuali normative fiscali interne, come il BEAT (Base Erosion and Anti-abuse Tax) e il GILTI (Global Intangible Low-Taxed Income), già prevedono una forma di tassazione minima per le loro multinazionali. L’accordo del G7 è un riconoscimento di questo, permettendo alle aziende statunitensi di essere tassate principalmente in patria, benché in misura minore: si parla di un 10% contro il 15% di minimo dell’accordo internazionale.

La guerra dei dazi e la tassazione dei servizi digitali

L’accordo del G7 lascia aperta la porta a future discussioni sulla tassazione dell’economia digitale (il ‘Pillar One’ dell’accordo OCSE/G20). Questo è cruciale per i paesi europei che hanno spinto per una maggiore tassazione delle Big Tech.

Ma gli Stati Uniti considerano le tasse sui servizi digitali (Digital Services Taxes – DSTs) come discriminatorie nei confronti delle loro aziende e le vedono come un tentativo di tassare le loro ‘esportazioni digitali’. È qui il punto vero dello scontro: per l’UE, e in particolare per paesi come Italia, Francia e Germania, le DSTs sono un modo per garantire che le Big Tech contribuiscano equamente al gettito fiscale, dato che i loro profitti sono generati anche dall’uso dei dati e dai servizi forniti ai cittadini europei. E proprio questi paesi sono in prima fila, come G7, contraddittoriamente, per l’esenzione delle imprese statunitensi.

Esentare gli Stati Uniti da un punto chiave dell’accordo rappresenta infatti una concessione importante per i paesi dell’UE, come la Francia, che erano stati i principali sostenitori dell’accordo fiscale. Un funzionario francese, intervistato anonimamente da Pubblico UE, ha preferito vedere il bicchiere mezzo pieno, sottolineando che la tassa di ritorsione degli Stati Uniti “sarebbe stata un enorme onere per le aziende francesi”.

“Non stiamo rivendicando la vittoria, ma abbiamo ottenuto alcune concessioni poiché gli Stati Uniti si sono impegnati a partecipare ai negoziati dell’OCSE sulla tassazione equa”, ha proseguito il funzionario, mentre il Commissario europeo per la fiscalità, Wopke Hoekstra, ha scritto su X che è “fantastico vedere i segni di progresso nel G7 sulla tassazione internazionale”, senza entrare nei dettagli.

Sono i dazi il vero tema scottante del momento

Inizialmente, Italia, Germania e Francia si erano opposte all’introduzione di tasse sui servizi digitali in quanto parte di un più ampio accordo globale che avrebbe dovuto includere una soluzione internazionale per la tassazione delle Big Tech (il già citato ‘Pillar One’). Il loro obiettivo era una soluzione multilaterale per evitare un mosaico di tasse nazionali e le relative ritorsioni. Tuttavia, di fronte all’impasse sul Pillar One e alle esigenze di bilancio, alcuni di questi paesi hanno poi introdotto o mantenuto le proprie DSTs nazionali, pur sperando in una soluzione globale. La loro accettazione dell’esenzione USA sulla tassa minima globale è un bilanciamento tra la necessità di evitare una guerra commerciale totale e la speranza di far avanzare, in futuro, la discussione sulla tassazione dei servizi digitali.

Questo guardando al futuro, ma i dazi sono una questione decisamente più urgente, dato che dovrebbero entrare in vigore il 9 luglio. Trump ha minacciato di imporre dazi del 50% su tutti i prodotti dell’UE, a meno che le due parti non raggiungano un accordo. La maggior parte dei prodotti europei è già soggetta a un dazio del 10%, con imposte del 25% sulle automobili e sui ricambi auto e del 50% sull’acciaio e l’alluminio.

Sempre più urgenti le negoziazioni

Il Commissario del commercio dell’UE, Maroš Šefčovič, ha ottenuto un incontro con il segretario al commercio degli Stati Uniti, Howard Lutnick, giovedì pomeriggio, in compagnia del rappresentante commerciale Jamieson Greer e del segretario al Tesoro, Scott Bessent. La spinta verso un accordo di principio strettamente mirato arriva dopo che il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha ribadito la sua richiesta di un accordo rapido, “per eliminare l’onere dei dazi sulle nostre imprese, che sono troppo elevati”, e che i negoziati attuali “non riguardano un accordo commerciale minuziosamente dettagliato”, ma “la rapida risoluzione di una ‘semplice’ controversia sui dazi”.

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“L’Unione europea rappresenta il 22% del Pil globale, mentre gli Usa il 25%”, aveva ribadito Weber al Corriere. “Siamo abbastanza alla pari in termini di dimensioni e potere economico. Trump non può maltrattarci come sta facendo con il Canada, la Gran Bretagna o altri Paesi più piccoli. Il presupposto è l’unità. È stato molto positivo che tutti i leader – Macron, Meloni, Merz – abbiano confermato che è la Commissione a negoziare. Ora siamo nella fase finale”.

Appunto: occorre tenere il fiato sospeso, per lo meno fino al 9 luglio…

di Massimo Bolchi



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