Un taglio di risorse mascherato da aumento che non risolve l’emergenza dei precari della ricerca. È così che vanno letti i numeri presentati ieri dalla ministra dell’Università Anna Maria Bernini dopo aver firmato la ripartizione annuale del Fondo ordinario agli enti pubblici di ricerca (Foe) per il 2025, pari a circa un miliardo e mezzo. Sono i finanziamenti più importanti, quelli con cui si pagano soprattutto stipendi, bollette e spese di manutenzione nei centri di ricerca pubblici vigilati dal Mur. I tre enti principali – Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) – incassano oltre l’80% del fondo totale. Il Cnr, in cui lavorano circa 12mila persone, vale da solo circa la metà della torta.
Rispetto al 2024, il fondo prevede un incremento di 10 milioni che la ministra sbandiera con un certo orgoglio: «Anche quest’anno abbiamo aumentato le risorse non solo per il loro funzionamento ordinario, possano incrementare le iniziative progettuali straordinarie che sono la leva dell’innovazione». Se ci si limitasse ai numeri assoluti, la ministra avrebbe anche ragione. Ma in termini percentuali quei 10 milioni di incremento equivalgono a un +0,6%, cioè un terzo dell’inflazione. In termini reali, dunque, si tratta di un calo: gli aumenti dei costi di energia e servizi si mangeranno tutti i fondi in più e per la ricerca rimarranno, come sempre, le briciole. I presidenti degli enti, tuttavia, ringraziano la ministra per il «chiaro riconoscimento politico e culturale», come dice il presidente Infn Antonio Zoccoli. Dimenticano che l’aumento del fondo in realtà era stato deciso dal governo Draghi nella legge di bilancio del 2022, che adesso sembra essere stata scritta in un’altra era geologica: l’invasione dell’Ucraina non era ancora iniziata e all’inflazione in doppia cifra come negli anni Settanta non pensava nessuno. Da allora, il finanziamento per gli enti è cresciuto a un ritmo dimezzato rispetto al carovita.
Nella tabella della ripartizione ministeriale colpisce che sia proprio il Cnr, l’ente più grande, a non ricevere alcun aumento. I fondi a disposizione del principale ente di ricerca italiano rimangono fermi ai valori del 2024, circa 735 milioni. È colpa di un’altra decisione presa nella stessa legge di bilancio 2022, che destinava un aumento di 100 milioni l’anno a regime per gli altri enti e ne stanziava 80 al Cnr – 20 in meno, nonostante rappresenti la metà del sistema ricerca – per il suo «piano di rilancio». Oggi il Cnr è penalizzato di nuovo perché quelle risorse sono appena state decurtate. Pochi giorni fa la ministra ha annunciato un finanziamento per gli enti di ricerca di 160 milioni in tre anni, in realtà una redistribuzione di fondi già appostati per il settore. Ma per coprire quei 160 milioni Bernini ne ha sottratti 30 proprio dai fondi destinati al Cnr dalla finanziaria del 2022. Dunque da un lato il Cnr non partecipa all’aumento del Foe, dall’altro perde una quota del finanziamento che ne giustificava l’esclusione.
Il Cnr è anche l’ente più in emergenza. Da quasi due mesi è senza presidente. In più, essendo l’ente che partecipa maggiormente ai progetti legati al Pnrr, alla conclusione ormai vicina del piano europeo dovrà mettere alla porta 4mila ricercatori e tecnici assunti a termine per realizzare le «infrastrutture di ricerca», in mancanza di fondi strutturali.
Di fronte all’allarme per la bolla che sta per scoppiare e alle mobilitazioni dei precari, la ministra ha parlato di nuovi investimenti nel settore. Ma quasi sempre si è trattato di risorse spostate da un capitolo di spesa all’altro oppure decise dai governi precedenti.
I soli denari destinati alle stabilizzazioni sono arrivate dalle opposizioni, che hanno devoluto così la piccola posta a loro disposizione nell’ultima legge di bilancio per circa 10 milioni l’anno. La partita più importante si giocherà nella prossima finanziaria, quando il governo dovrà anche rispettare l’impegno al riarmo assunto dalla premier e regalare qualche mancetta alla defiscalizzazione chiesta dalla Lega. Bernini, e con lei tutta la ricerca pubblica, potrebbe fare di nuovo la fine del vaso di coccio.
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