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Yanis Varoufakis non si arrende


Per chi ha seguito con il fiato sospeso le trattative tra il governo greco e la Troika nella primavera del 2015, nessuno più di Yanis Varoufakis, ministro delle Finanze nel primo governo Tsipras, ha incarnato il simbolo della piccola nazione mediterranea che si opponeva ai suoi creditori, con l’obiettivo di concordare una ristrutturazione del debito che risparmiasse la popolazione colpita da anni di austerità. Varoufakis ha dismesso i panni del ministro il giorno dopo il referendum, ma mantiene, a dieci anni di distanza, quelli del feroce critico dell’establishment europeo, con il suo movimento Diem25.

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La Grecia di oggi sta generando un solido avanzo di bilancio primario. Nel 2025 la sua economia crescerà, secondo le previsioni, del 2,3%. Il primo ministro Kyriakos Mitsotakis ha rivendicato con orgoglio che «non è più la malata di Europa».

Ogni grande bugia, sosteneva Goebbels, deve essere costruita con piccole verità. Lo stesso vale per la Grecia di oggi. Sì, è vero: i finanzieri adorano la Grecia perché è il paese che garantisce loro i maggiori profitti del pianeta. In che modo? Prima di tutto, la Banca centrale europea sostiene i titoli di Stato ellenici fin tanto che i nostri governi obbediscono irresponsabilmente a Bruxelles e Francoforte, permettendo che i fondi e gli oligarchi acquistino mutui immobiliari e commerciali al 5-10% del loro valore – gettando famiglie e lavoratori sulla strada – per poi rimettere all’asta gli immobili, e portare i soldi guadagnati alle Isole Cayman. Un vero e proprio ricatto: «Lasciate che i predatori spolpino i greci – dicono ai governanti – e noi sosterremo il vostro stato». Poi, lo stato infila le mani nelle tasche dei greci e delle greche, sottraendo 15 miliardi in più di quanto spende ogni anno, per darli ai creditori, in un’economia che spende solo 5 miliardi per l’istruzione e altri 7 miliardi per la sanità. Dall’epoca della dominazione ottomana non abbiamo mai avuto un avanzo primario così elevato: l’unica differenza è che allora lo chiamavamo tributo capitario, ora lo chiamano… risanamento finanziario, una «success story»! Questo spiega perché oggi i salari reali sono inferiori del 25% e perché il reddito reale disponibile in Grecia è inferiore del 44% rispetto al 2009. Ci siamo ritrovati con i mercati che esultano e il nostro popolo che versa in una situazione peggiore.

Dieci anni fa lei fu protagonista del braccio di ferro con la troika. Che ricordo ha di quelle riunioni?

Era come vedere un incidente aereo svolgersi davanti ai propri occhi con un movimento straziante e lento. Ma, per quanto lento fosse, lo scontro è avvenuto, la catastrofe è arrivata. E non sto parlando della Grecia: lo stato greco era in bancarotta dalla fine del 2009, insieme alle banche europee. La catastrofe di cui parlo riguarda la Germania stessa. Il ricordo più triste, è quello dei rappresentanti della Germania, incapaci di comprendere che ciò che stavano facendo al nostro popolo – una dura e universale austerità per i molti da un lato e, dall’altro, il ‘socialismo’ per i banchieri e il grande capitale (cioè la stampa di montagne di denaro per loro) – avrebbe portato con matematica precisione alla crisi di deindustrializzazione in Germania. In parole povere, ciò che mi ha colpito di più è stata la constatazione di quanto fossero incapaci di perseguire i propri interessi.

Nel 2011, Grecia e troika concordarono un piano di privatizzazioni molto ambizioso, i cui ricavi furono decisamente sovrastimati. Chi ne ha beneficiato?

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Non occorre riflettere molto. Lo Stato greco è fallito, il che ha offerto ai creditori e ai loro rappresentanti locali un’ottima occasione per intervenire, smembrarlo, appropriarsi di tutti i beni di valore (resi più efficienti poi grazie ai soldi dei cittadini o dell’Unione europea), ridurre brutalmente gli stipendi, imporre prezzi incredibili alla popolazione locale, e condannarla a una servitù permanente per debito.

Il referendum del 2015 è stato uno spartiacque per la storia della sinistra. Molti elettori non perdonarono a Syriza la scelta di sottostare al mandato della troika pur avendo incassato un netto ‘No’ al referendum, e dal 2020 il partito è sempre stato sconfitto da Nea Dimokratia. Il suo stesso movimento, Mera25, non ha raccolto i voti per entrare in parlamento nel 2023. Quale sarebbe stato il destino della Grecia se Tsipras avesse tenuto fede al mandato referendario?

Un anno prima delle elezioni, nel 2014, avevo spiegato ad Alexis Tsipras e alla direzione di Syriza che non valeva la pena di assumere l’incarico di governo se non a due condizioni: primo, concordare sul fatto che lo scenario peggiore non era un’uscita effettivamente dolorosa dall’euro, ma un terzo memorandum all’interno dell’euro. Secondo, non esitare a usare le armi a nostra disposizione contro quelle di distruzione della troika. Quali armi? Prima di tutto la minaccia di un ‘taglio’ dei titoli greci detenuti dalla Bce, che avrebbe impedito la chiusura delle banche, e poi l’attivazione di un sistema di pagamento alternativo digitale, che avrebbe garantito tempo, liquidità e sarebbe stato anche la base, se necessario, per una moneta nazionale. Tsipras ha accettato questo piano di negoziazione e solo per questo ho acconsentito ad assumere l’incarico di ministro delle finanze. Purtroppo, il piano è stato affossato e abbiamo assistito all’adesione incondizionata del gruppo di Tsipras al blocco del memorandum. Nessuno ha il diritto di parlare né di compromesso né di sconfitta, né di affermare che non c’era alternativa: il nostro piano non è fallito perché non è mai stato attuato. Per non ammettere di non aver mai usato le sue armi, Tsipras ha preferito definirsi ingenuo, fingere di non aver capito l’«irrealizzabilità» delle sue promesse. Come sarebbero le cose oggi se il nostro piano fosse stato rispettato? Una cosa è certa: ci avrebbe dato l’opportunità di fuggire dalla prigione del debito ed evitare l’attuale declino, un’ultima possibilità che il terzo memorandum ha ucciso. Se avessimo sfruttato questa opportunità, saremmo stati almeno responsabili del nostro destino.

In quei giorni si è giocata una partita importante per l’identità dell’Unione europea. Oggi, con i venti di guerra che soffiano implacabili, Bruxelles non ha esitato a permettere la revisione delle regole di bilancio in nome della spesa militare. Dieci anni fa nei confronti della Grecia si tenne un atteggiamento inflessibile.

Per la vera integrazione europea, non ci hanno permesso di prendere in prestito nemmeno un euro. Ai popoli, nemmeno un centesimo. Ma affinché la Volkswagen, che non può competere con Tesla o la cinese Byd, possa consegnare i suoi impianti di produzione dismessi alla Rheinmetall, che produrrà inutili carri armati Leopard – gli stessi che Von der Leyen impone all’Italia e alla Grecia di acquistare – per questi ci permettono, anzi ci impongono, di prendere in prestito centinaia di miliardi.

Quel che l’Europa consente in Palestina ora, segna in modo indelebile il suo volto. Lei crede ancora in una ‘altra Europa’, come si chiamava la lista sostenuta alle europee del 2014 da Luciana Castellina per Syriza?

Purtroppo no, è ormai evidente: l’Unione europea è finita. È diventata un pericoloso parassita che condanna l’Europa alla crisi e a un permanente declino. Quel che è peggio, era nata come un progetto di pace ed è mutata in un progetto di guerra. Fino al 2019 credevo ancora nella nostra capacità di convertire questa Unione oligarchica in una potenzialmente democratica: le elezioni europee del 2019 hanno coinciso con l’ultima occasione per i progressisti di realizzare questa trasformazione. Quando ho visto come è stato strutturato il cosiddetto Fondo per la ripresa (che ha trasferito risorse dai proletari dei paesi del nord agli oligarchi di Italia e Grecia), ho capito che questa Ue ha perso anche l’ultima occasione per smettere di essere parte del problema. Ora il nostro movimento Diem25 e il nostro partito (greco) Mera25 si stanno orientando su come proteggere i nostri popoli dall’Ue, su come rovesciarla e ricostruire da zero l’internazionalismo socialista europeo.

In «Tecnofeudalesimo» (La Nave di Teseo, 2023) lei dice che «non è più il capitalismo come lo abbiamo conosciuto», perché non si basa più sul mercato tradizionale ma su piattaforme digitali più vicine a «tecno-feudi»: gli utenti contribuiscono alla formazione del capitale semplicemente interagendo con esse. I proprietari del ‘cloud capital’ di oggi non hanno soltanto monopolizzato i mercati, ma li hanno sostituiti. Quale è il filo che lega la crisi scatenata dal capitalismo finanziario all’inizio del nostro secolo a questa nuova incarnazione del capitale?

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Il collegamento è la risposta politica al crollo del 2008, la combinazione di dura austerità per i molti e stampa di denaro illimitato per il grande capitale. Quando la maggioranza della popolazione diventa povera, a causa dell’austerità, e si riservano ingenti risorse alle grandi imprese, i loro dirigenti prendono il denaro stampato dalle banche centrali ma non lo investono in modo produttivo, poiché vedono che la gente là fuori non ha abbastanza soldi per acquistare nuovi beni di grande valore.

Cosa fanno allora con il denaro stampato? Lo usano per acquistare le proprie azioni, con l’obiettivo di farne aumentare il prezzo e, quindi, aumentare i propri bonus, che sono proporzionali al prezzo delle azioni della loro azienda. In questo modo, abbiamo un enorme aumento della disuguaglianza, del malcontento sociale, della xenofobia, il rafforzamento dell’estrema destra. In questo scenario, gli unici capitalisti che hanno preso il denaro stampato dalle banche centrali e lo hanno investito in macchinari, in capitale, sono stati i proprietari della Big Tech. Ecco come è stato finanziato, indirettamente, dai nostri Stati il ‘cloud capital’ che, col tempo, ha conquistato il mondo, ha sostituito i mercati di base con feudi cloud (ad esempio Amazon) e, alla fine, ha fondato quella che io chiamo tecnocrazia.



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