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L’avamposto dei coloni sulle ceneri di Al Muarrajat


Ci dice di chiamarsi Yitav e di avere 20 anni. Con ogni probabilità non ha detto la verità. Yitav è il nome della colonia israeliana a 3-4 km di distanza, in questa piana desertica della Valle del Giordano meridionale, a ovest del villaggio di Oja (Gerico). E di anni ne avrà al massimo 16. È uno dei cosiddetti «giovani delle colline», un movimento di estrema destra religiosa che da lungo tempo lancia ragazzi israeliani alla conquista delle alture della Cisgiordania e che, dal 7 ottobre 2023, è impegnato nella pulizia etnica delle piccole comunità palestinesi, in prevalenza beduine. Yitav, ammesso che si chiami davvero così, giovedì, assieme ad altre decine di coloni giovanissimi, ha messo a ferro e fuoco Al Muarrajat, un villaggio popolato da beduini Arab al Malihat: una cinquantina di famiglie che avevano già subito un’aggressione lo scorso febbraio.

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Perché avete attaccato queste famiglie? Alla nostra domanda il colono resta impassibile. «Non abbiamo cacciato via nessuno, lasciano questo posto per scelta», ci risponde dopo qualche secondo, fissandoci negli occhi. «Noi gli abbiamo soltanto detto che questa terra è nostra, ce l’ha donata Dio, e che loro possono andare da un’altra parte», aggiunge Yitav, che con i suoi compagni ha dato vita a un avamposto coloniale a pochi metri dalla scuola elementare di Al Muarrajat, costruita con fondi europei. Per ora è solo una tenda bassa, di colore azzurro, con qualche tappeto e un po’ di cuscini. Gli facciamo notare che siamo a pochi chilometri da Gerico, in terra palestinese. Non risponde.

La tenda-avamposto dei coloni al villaggio di Al Muarrajat – foto di Michele Giorgio

Si avvicinano alcuni militari israeliani. Sono tre, e qui non sono venuti per individuare i responsabili dei roghi che hanno distrutto strutture e stalle degli abitanti palestinesi. «Siamo qui per evitare scontri e violenze», ci dice una soldatessa. Poi ci chiede da dove veniamo. «Dall’Italia sei venuto qui per occuparti di queste cose? Ma il tuo Paese è così bello, io sono stata a Roma, spero di tornarci presto», dice, ripetendo le frasi abituali di tanti israeliani quando incontrano gli italiani. Poi ci chiede di mostrare il passaporto e l’accredito stampa.

A Yitav e al suo compagno a presidio dell’avamposto, invece, i soldati non fanno domande sull’accaduto. Sorridono e scherzano tra di loro. Rivolgiamo un altro paio di domande al giovane colono sull’attacco al villaggio. Lui cambia discorso. «Guarda questa terra, è meravigliosa, è un dono bellissimo. Starò qui, saremo qui» ci dice, mentre alle nostre spalle decine di abitanti palestinesi, tornati solo per qualche ora, si affrettano a recuperare ciò che possono da tende e strutture abbattute o bruciate.

Hania al Malihat dice di aver avuto molta paura. «I coloni erano tutti armati e ci urlavano di andare via subito, altrimenti avrebbero usato la violenza – racconta –. Ho preso poche cose e sono andata al campo profughi di Aqabat Jaber, a Gerico. Ora, con mio figlio, cerchiamo di portare via qualcosa di utile. Abbiamo perduto tutto».

I palestinesi scappano da Al Muarrajat – foto di Michele Giorgio

Altri palestinesi cercano le pecore. Ad Al Muarrajat sono quasi tutti pastori, e il gregge è l’unico reddito per tante famiglie. Più persone del villaggio ci dicono che i coloni hanno portato via le pecore dopo aver abbattuto i ricoveri degli animali. «Abbiamo perso la terra, le bestie, questo luogo in cui siamo nati e cresciuti. Non abbiamo avuto scelta, siamo stati minacciati», ci riferisce Mohammad al Mahilat, chiedendoci dell’acqua in bottiglia per lui e la sua famiglia.

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Per questa comunità l’acqua è un problema antico. Eppure, accanto ad Al Muarrajat ci sono enormi serbatoi della Mekorot, la società idrica israeliana. Controlla anche l’acqua della Cisgiordania, che però va in gran parte alle colonie o viene indirizzata in Israele. Più o meno un terzo resta ai palestinesi. Decine di villaggi arabi non sono mai stati collegati alla rete idrica e gli abitanti comprano l’acqua potabile da privati, a prezzi esorbitanti.

Il villaggio di Samra evacuato dalla popolazione – foto di Michele Giorgio

Davanti ai nostri occhi si consuma la fine di un’altra comunità palestinese, di un modello di vita antico, e il loro posto è preso da avamposti coloniali. Dal 7 ottobre 2023, trenta comunità beduine sono state costrette a evacuare. «Dopo tre anni di resistenza, senza alcun aiuto, contro i coloni e le forze di occupazione israeliane, alla fine i residenti sono stati costretti ad andarsene», afferma con amarezza Hassan Mahilat, direttore di Baydar, un’associazione a difesa dei beduini. «Gli avamposti dei coloni sono centri di costante aggressione e terrore quotidiano», aggiunge. Qualche ora prima del raid ad Al Muarrajat, più a nord, gli abitanti di Samra sono stati costretti a scappare dopo ripetute intimidazioni. I coloni hanno lasciato ovunque disegni con la bandiera israeliana e il noto slogan ultranazionalista «Am Israel Chai» («Il popolo d’Israele vive»).

Yezekel Erakiel, un attivista di «Looking the Occupation in the Eye» (Mistaclim), ci spiega che «la pulizia etnica sta avvenendo in una fascia di territorio tra la statale 90, al confine con la Giordania, e la parallela Alon Road, che corre più all’interno tra le alture della Valle del Giordano». Presto, aggiunge, «i coloni attaccheranno Ras al Ein, un villaggio accanto alla colonia di Yitav». Erakiel precisa che «i giovani delle colline spesso hanno solo 13 o 14 anni, e vengono manipolati e mandati allo sbaraglio da coloni fanatici come Zohar Sabbagh, nel sud della Valle del Giordano, e Uri Cohen, nel nord».

Tragicamente, l’espulsione di tante comunità palestinesi sta avvenendo accanto alla statale 90, nota come la «Gandhi Road», ma non in onore del Mahatma Gandhi, bensì del ministro e generale israeliano Rehavam Zeevi, assassinato nel 2001 dal Fronte Popolare (Fplp). Zeevi, che assomigliava vagamente a Gandhi, non era un pacifista, anzi era un accanito sostenitore del «transfer», la pulizia etnica dei palestinesi. In Israele è ricordato come un martire e gli hanno dedicato la strada che dalla Valle del Giordano porta al lago di Tiberiade.

Nella Cisgiordania orientale non sono a rischio solo le piccole comunità beduine. Raid di coloni ed esercito si registrano sempre più spesso anche in villaggi grandi come Kufr Malik (dove la scorsa settimana sono stati uccisi tre giovani palestinesi), Turmusaya, Maghayer e Deir Dibwan. Quello di Sinjil è ormai una prigione a cielo aperto. Una recinzione metallica alta cinque metri taglia in due la parte orientale del villaggio. Pesanti cancelli d’acciaio bloccano tutti i percorsi, tranne uno: in entrata e in uscita dalla città. Gli abitanti sono tagliati fuori dai campi coltivati.

«La recinzione ha rinchiuso 9.000 esseri umani in appena quattro ettari, separandoli dai campi di loro proprietà privata», raccontava venerdì il vicesindaco Bahaa Foqaa alla manifestazione di protesta del villaggio. A volere la barriera sono stati i coloni. Israel Gantz, capo del cosiddetto Consiglio regionale di Binyamin, che rappresenta 47 colonie (totalmente illegali per il diritto internazionale), sostiene che «la costruzione è stata resa necessaria perché i palestinesi lanciano pietre e molotov contro le auto sulla vicina autostrada, solo perché gli automobilisti sono ebrei».



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