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L’importanza di avere un vero e proprio cloud italiano


Di Michele Zunino, Presidente del Consorzio Italia Cloud

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È chiaro a tutti quanto oggi sia fondamentale il cloud per ogni strategia di digitalizzazione. Le sue caratteristiche di flessibilità, scalabilità, riduzione dei costi di gestione e accessibilità remota sono straordinari abilitatori di crescita qualitativa dei servizi offerti dalle imprese e dagli enti pubblici. Ma il vero valore del cloud sono i dati, personali e non, il cui valore deriva dal loro sfruttamento a fini industriali, politici e ora anche geopolitici. Da qui l’appello alla creazione di un vero e proprio cloud italiano che ha portato, lo scorso maggio, il Consorzio Italia Cloud, a organizzare la prima Conferenza Nazionale sul cloud italiano, riunendo a Roma aziende italiane, politici e stakeholder per un confronto su come costruire un ecosistema nazionale del digitale.

Vale la pena sottolineare come il Consorzio, che raggruppa le aziende italiane attive nella filiera del cloud, sia aperto non solo a CSP puri, ma anche a operatori quali Independent Software Vendor (ISV), Managed Service Provider (MSP), System Integrator, Software House e telco, in quanto si ritiene il cloud nazionale come abilitatore di una filiera articolata, trasversale e sinergica che includa tutte le fasi della catena del valore.

Quali le regole per un cloud indipendente da ingerenze?

In tutta Europa vigono regole restrittive poste a tutela della protezione dei dati personali e strategici e della indipendenza e sovranità che essa assicura. In Italia le scelte sul settore sono state discontinue e spesso non sostenute da una logica di sistema e per questo il Paese rischia di essere più sguarnito rispetto al resto d’Europa. La cronaca delle ultime settimane indica come occorra dotarsi di strumenti a controllo nazionale e non sottoposti alle giurisdizioni di altre nazioni e l’Italia deve rimodulare il settore per gestire al meglio le sfide.

L’Italia e il Cloud tra presente e futuro

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La convinzione, radicata nella missione del Consorzio, è che serva una cooperazione strutturata tra industria, politica, accademia e centri R&S per affrontare insieme sfide tecnologiche, geopolitiche e di mercato. E che, oggi più che mai, innovazione e interesse nazionale possano e debbano camminare insieme. Un’importanza ribadita nelle linee guida della Strategia Cloud del Paese, ma di fatto difficilmente implementata, a causa della mancanza di un’alternativa nazionale affidabile. Ma arrendersi non è accettabile, se consideriamo i due assunti su cui poggia la società digitale:

  • I dati sono l’asset strategico più rilevante della nostra epoca. Materia prima assimilabile al petrolio o all’energia elettrica, il progresso si fonda sulla qualità e quantità delle informazioni che vengono generati, archiviati e gestiti elettronicamente.
  • L’infrastruttura digitale è l’ossatura portante dell’economia globale. Non è solo un settore industriale a grande valore, ma l’elemento trasversale che abilita praticamente tutti i modelli di business e a cui si improntano ormai anche le relazioni internazionali e tra gli Stati e i cittadini e le imprese. Chi la gestisce e ne possiede le chiavi di accesso ha un vantaggio competitivo oggi inattaccabile.

I rischi del monopolio degli hyperscaler

Oggi, in Italia, il cloud è un settore nel quale, in assenza di nuove direttrici da parte del governo, si rischia di trovarsi in deficit di asset, di competenze e di iniziative d’impresa nazionali, tutti elementi che ostacolano la crescita del Paese in quel contesto di indipendenza e sovranità nazionale unanimemente auspicato. Un ragionamento specifico merita il tema dei Data Center, per sgombrare il campo da un equivoco diffuso. Le multinazionali annunciano infatti ingenti investimenti nel “mattone” del digitale, riscuotendo entusiasmo e generando aspettative di crescita per i territori interessati.

La verità è che il Data Center – come edificio che ospita le macchine fisiche e virtuali degli hyperscaler – non dà garanzia di sovranità, perché a determinare la localizzazione e il valore sono le piattaforme (tutte remote), mentre dall’attività di Real Estate non si sviluppano né risorse reali (la messa in opera è frutto di transazioni estero su estero), né occupazione massiccia o competenze (risiedono tutte nei centri di controllo basati all’estero). Quello che certamente ci si porta in casa è il consumo di suolo, di acqua, di energia e i conseguenti temi di sostenibilità ambientale. Nel frattempo, la filiera nazionale, popolata da decine di PMI che avrebbero bisogno di un ecosistema su cui contare per sfruttare le economie di scala, agisce in solitudine, senza una politica nazionale che valorizzi le risorse imprenditoriali e le competenze nazionali.

Che cosa si intende per cloud sovrano?

In un articolo su Politico del gennaio 2025, Johan David Michels, Ricercatore del Cloud Legal Project alla Queen Mary University (Londra) ne dà una definizione ampia. Prima di tutto, il cloud sovrano è un servizio che permette all’utilizzatore di esercitare un alto livello di controllo, di prendere decisioni informate in autonomia e di trasferire ad altro provider o riportare all’interno i propri dati. Una definizione che il ricercatore poi allarga a includere anche il tema dell’accesso ai dati: se un governo straniero può chiedere al cloud provider di accedere ai dati senza autorizzazione da parte del titolare, non si può parlare di cloud sovrano. 

La prima parte della definizione di sovranità di Michels, in particolare, si può forse rendere meglio con l’espressione di indipendenza digitale, preferibile per chiarezza e ampiezza. Per indipendenza non si intende quindi una visione sciovinista, ma il poter operare scelte libere e prendere decisioni autonome rispetto all’utilizzo di infrastrutture, piattaforme, hardware e strumenti software. Il tutto, potendo consapevolmente scegliere di restare all’interno di un perimetro di interessi comune, anche rispetto alla protezione dei dati, che il Consorzio Italia Cloud identifica con l’ambito nazionale.

I rischi “invisibili” della dipendenza tecnologica

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Entrato finalmente nella narrazione mainstream, anche a causa di squilibri geopolitici imprevedibili fino a poco tempo fa, il tema della sovranità digitale è stato a lungo ignorato o considerato frutto di una mera posizione ideologica. In realtà basta fare alcuni esempi concreti per capire la rilevanza delle implicazioni sociali, culturali ed economiche di lungo termine della dipendenza dalle poche Corporation globali. Pensiamo al sistema universitario, che rischia di sommarsi ad altre componenti importanti del settore pubblico, con scelte controproducenti per l’Italia. In questo senso, risulta particolarmente deviante il sistema di voucher a consumo e convenzioni che le cosiddette Big Tech, senza esclusioni, mettono a disposizione delle università su tutto il territorio nazionale attraverso protocolli di intesa con la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI). Questi accordi, sostanzialmente preclusi alle realtà nazionali del settore, siglati in virtù di un apparente vantaggio economico e di aggiornamento tecnologico, diventano un veicolo che indirizza in modo silente la formazione superiore verso specifici prodotti e soluzioni, valorizzando le competenze ad essi collegate.

In particolare, tale approccio, che ha coinvolto anche scelte pubbliche significative indirizzate al settore, ha generato fenomeni di penalizzazione delle imprese nazionali:

  • Limitando gravemente l’apprendimento al mero campo applicativo, modellandolo su prodotti e servizi tecnologici già disponibili e inibendo negli studenti lo sviluppo competenze teoriche di più ampie.
  • Orientando gli studenti, futuri decisori aziendali, al ricorso esclusivo a un ristretto oligopolio di fornitori globali, non per scelta consapevole.
  • Interrompendo sul nascere quel circolo virtuoso attraverso cui l’università e la ricerca contribuiscono in termini di competenze e persone alla realizzazione delle potenzialità della filiera industriale nazionale.
  • Predisponendo naturalmente i laureati all’esodo verso l’estero, attratti dagli operatori sulle cui piattaforme si sono formati.   

La formazione universitaria è il primo tassello della filiera se lo si analizza come a un circolo a fasi ricorrenti, ma questo tipo di ragionamento si applica anche all’industria, dalle infrastrutture ai software.

Conclusioni

Occorre favorire l’adozione del Public Cloud e la nascita di un vero e proprio campione nazionale, a partire dalle PMI che fanno cloud: imprese private o a controllo pubblico, come nel caso delle in-house regionali. Oggi la sfida si chiama AI anche per il cloud e sarebbe utile cambiare la narrativa di sistema. Ogni innovazione strutturale e straordinaria, come nel caso dell’AI, è in condizione di rimescolare le carte e offrire nuove opportunità. L’Italia ha un posizionamento globale eccellente in infrastrutture di calcolo, collocandosi al terzo posto nel mondo, e sarebbe opportuno sfruttare tale capacità di calcolo per usare l’AI italiana e non come traino per lo sviluppo di un cloud di imprese nazionali.  

Il Consorzio Italia Cloud chiama a raccolta gli operatori nazionali del digitale e le istituzioni. Si teme che il persistere della sudditanza verso le Big Tech rischi di consegnare velocemente i destini del Paese nelle mani di poche multinazionali. Si può ancora agire, ma bisogna fare presto, col contributo di tutti.

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