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Responsabilità sociale nuova frontiera del fare impresa


Nuove fragilità sociali e il progressivo arretramento del welfare pubblico stanno spingendo un numero crescente di aziende a riscrivere il proprio ruolo nella società. Sempre più imprese scelgono infatti di adottare un approccio orientato alla responsabilità sociale, impegnandosi attivamente nel miglioramento del benessere collettivo. Non si tratta solo di “fare del bene”, ma di coniugare la creazione di valore economico con quella sociale e ambientale, secondo una visione integrata e sistemica che considera l’impatto dell’impresa nel suo insieme: sulle persone, sul territorio, sull’ambiente.

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La spinta arriva da un contesto esterno sempre più fragile. Secondo il Censis, il 61% degli italiani percepisce un peggioramento nell’accesso ai servizi pubblici essenziali; l’Asvis (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) segnala che l’Italia è in ritardo su molti obiettivi dell’Agenda 2030, in particolare quelli legati all’inclusione, alla salute e all’istruzione. Il Forum Disuguaglianze e Diversità parla apertamente di una “emergenza sociale diffusa”, che colpisce soprattutto le periferie, le famiglie vulnerabili e i territori marginalizzati, aggravando le disuguaglianze e alimentando la povertà educativa. Il risultato è una crescente distanza tra centro e periferia, tra chi ha accesso a opportunità e servizi e chi invece resta escluso.

In questo scenario, il welfare pubblico mostra segni di affanno, anche a causa di una crescente pressione sui conti pubblici dovuta all’invecchiamento della popolazione, alla denatalità e a trasformazioni strutturali del mercato del lavoro. Secondo il Rapporto 2024 del think tank “Welfare Italia” di The European House – Ambrosetti, servirebbero 176 miliardi di euro aggiuntivi per garantire la sostenibilità del sistema di protezione sociale italiano. L’Italia è oggi il Paese europeo con la più alta incidenza della spesa previdenziale sul Pil (16,2%, contro una media del 12,3% di Germania, Francia e Spagna), a fronte di livelli inferiori di investimento in settori chiave come l’istruzione (4,1% del Pil) e la sanità (7,1%). Una sproporzione che rischia di compromettere le prospettive delle nuove generazioni e di rendere ancora più fragile il patto sociale.

In risposta a queste fragilità crescenti, le imprese più lungimiranti si stanno trasformando in nuove “infrastrutture sociali”, dove il welfare aziendale non è più solo un insieme di benefit rivolti ai dipendenti, ma evolve in uno strumento capace di generare valore condiviso e impatti positivi sul territorio. Questo significa non limitarsi a supportare il benessere interno, ma estendere il raggio d’azione a famiglie, scuole, quartieri, contribuendo alla creazione di un benessere diffuso.

Grafico a cura di Silvano Di Meo 

È un cambio di paradigma che mette al centro il principio di sussidiarietà: il contributo delle imprese si affianca a quello delle istituzioni pubbliche, colmando vuoti e rispondendo a bisogni laddove l’intervento statale fatica a essere tempestivo o sufficiente. In questo contesto si moltiplicano le esperienze di welfare “aperto” o territoriale, che superano i confini dell’organizzazione e coinvolgono il tessuto sociale circostante: doposcuola co-progettati con le amministrazioni locali, sportelli di assistenza familiare accessibili anche ai cittadini, progetti sanitari o culturali nelle periferie, iniziative di rigenerazione urbana e ambientale.

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Sul contributo delle imprese alla coesione sociale si concentra anche il terzo rapporto dell’Osservatorio Sodalitas sulla Sostenibilità Sociale d’Impresa, che fotografa un’aspettativa crescente da parte dell’opinione pubblica. Gli italiani riconoscono alle imprese – soprattutto alle grandi – un ruolo potenzialmente decisivo per migliorare la società dal punto di vista sociale e ambientale, ponendole al terzo posto dopo Governo ed Europa tra gli attori chiamati ad agire. Le persone si aspettano che le aziende non restino neutrali di fronte alle grandi sfide del nostro tempo, ma prendano posizione, investano, si assumano responsabilità.

Particolarmente esigente è la fascia dei giovani tra i 18 e i 24 anni: informati, attenti e consapevoli, chiedono coerenza tra dichiarazioni e comportamenti. Non si accontentano più di campagne valoriali, ma pretendono impegni misurabili, impatti concreti, risultati verificabili.

Sostenibilità ambientale e sociale sono percepite come due facce della stessa medaglia: per la maggior parte dei cittadini, le imprese devono agire su entrambi i fronti con la stessa determinazione. Sul piano ambientale, le priorità individuate sono chiare: smaltimento corretto dei rifiuti, riduzione delle emissioni inquinanti, utilizzo di fonti rinnovabili.

In ambito sociale, invece, gli italiani indicano come priorità il rispetto dei diritti dei lavoratori, il benessere dei dipendenti e la correttezza nei comportamenti aziendali. Le imprese che non si limitano alle dichiarazioni, ma dimostrano con i fatti il proprio impegno, sono premiate in termini di fiducia e riconoscibilità.

Una trasformazione che non è solo etica, ma sempre più strategica. Secondo l’Ey Sustainability Index 2024, le imprese italiane con una strategia Esg (ambientale, sociale e di governance) integrata hanno registrato una crescita dei ricavi superiore del 6% rispetto alla media settoriale. A questi risultati si aggiungono benefici trasversali: reputazione più solida, maggiore fidelizzazione dei clienti, produttività interna in aumento e una più forte capacità di attrarre talenti.



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