La seconda asta prevista dal decreto Fer-X con cui l’Italia si appresta ad aggiudicare gli incentivi per 1,6GW di nuova capacità solare contiene un requisito inedito. Si dispone, infatti, che all’aggiudicazione non possano partecipare impianti con pannelli solari o inverter made in China. Questo avviene per migliorare il funzionamento del mercato interno garantendo “l’accesso ad un approvvigionamento sicuro e sostenibile di tecnologie rinnovabili a zero emissioni nette, anche incrementandone la capacità produttiva”.
Si desume, quindi, che l’obiettivo di questa disposizione sia incentivare l’uso di forniture sicure e lo sviluppo di una capacità produttiva “amica” se non domestica. Il tema è la sicurezza energetica, che viene messa in discussione dalla leadership cinese su queste tecnologie. Più che di leadership bisognerebbe parlare di dominio, perché il 98% dei pannelli solari e il 70% degli inverter venduti in Europa sono cinesi.
Non è quindi chiaro come gli operatori possano rispondere in presenza dei nuovi requisiti “anti-cinesi”.
Il dato politico è che a luglio 2025 ci si accorge che l’Europa non ha alcuna autonomia su un pezzo importante dell’energy transition, che a livello globale è dominata da società e tecnologie cinesi. Questo non sarebbe un problema, perché i prodotti cinesi hanno un vantaggio di costo e di performance e perché oggi il settore vive una condizione di eccesso di capacità che è quanto di meglio si possa augurare un compratore. Non sarebbe un problema se non si temesse un peggioramento delle relazioni commerciali e anche un mutamento profondo della strategia economica cinese.
In questi giorni il Governo cinese suggerisce a diversi comparti, tra cui quello dei pannelli solari, di astenersi da un’eccessiva competizione, mentre minaccia riduzioni di capacità imposte dall’alto. È la conseguenza della “guerra commerciale”, il nome che si dà al decoupling dalla Cina a cui stiamo assistendo, e che impone un cambiamento al modello economico cinese.
Dal Liberation Day di Trump sono passati ormai tre mesi di grande confusione in cui cominciano a emergere alcune costanti. Per ottenere un trattamento favorevole da parte degli Stati Uniti occorre accontentare le richieste di Washington sul ruolo della Cina nelle catene di forniture.
Questo è sicuramente il caso dell’accordo “privilegiato” tra Stati Uniti e Regno Unito. Forse è una coincidenza che certi requisiti per l’ottenimento degli incentivi compaiano negli stessi giorni in cui l’Europa prova a chiudere il suo accordo commerciale con Trump.
Il problema vero è che l’energy transition europea viaggia sulla tecnologia e sulla capacità produttiva cinesi e immaginare di recuperare un minimo di autonomia industriale prima di un quinquennio, nella migliore delle ipotesi, è un proposito velleitario.
L’Europa parte da zero sia in termini di capacità industriale nel continente, sia nella costruzione di catene di forniture complesse per geografia e per rapporti geopolitici. Se i rapporti politici o commerciali tra Cina e Europa dovessero peggiorare, tutta l’energy transition europea si fermerebbe.
È giusto quindi che la sicurezza energetica, che fa rima con sicurezza alimentare, entri nell’orizzonte dei Governi europei. Bisogna però chiedersi su cosa si debba ragionevolmente puntare, in un mondo che è diventato irriconoscibile nello spazio di sei mesi. Prendiamo pure per buono, senza sollevare il minimo dubbio, tutto quello che si dice sull’emergenza climatica; ma prima ancora, più urgente, c’è lo spettro di un’emergenza energetica a cui si attacca immediatamente quella alimentare.
Se l’Europa non è più sicura delle forniture green oppure non è più in grado di difenderle “politicamente”, allora realismo vorrebbe l’abbandono di ogni approccio ideologico. Diversamente si rischia molto più di una crisi economica.
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