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Intervento del ministro Giorgetti all’Assemblea annuale ABI


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Milano, 11 luglio 2025
Intervento Ministro dell’economia e delle finanze
On. Giancarlo Giorgetti

Buongiorno a tutti,

nel ringraziare il Presidente Patuelli per l’invito, che ho accettato con piacere, mi scuso per non poter essere di persona con voi stamani a Milano: gli impegni istituzionali internazionali non me lo hanno permesso.

Va constatato come l’economia italiana continui a dare segnali che, nell’attuale contesto, non esito a definire positivi.

Nei primi tre mesi del 2025 il PIL è aumentato del 0,3% in termini congiunturali con una la variazione acquisita per l’intero 2025 si attesta al +0,5%. Col risultato che l’Italia ha raggiunto il nuovo massimo storico per il tasso di occupazione (62,9%), mentre la disoccupazione è al 6,5%.

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Anche le prospettive sulla inflazione per il 2025 sono infine confortanti: a maggio essa si è attestata all’1,6%.

I bilanci delle famiglie continuano a rimanere estremamente solidi. Nel 2024 il debito verso banche e società finanziarie delle famiglie in rapporto al reddito disponibile è diminuito al 56,1%, circa 6 punti percentuali in meno rispetto al 2019 e quasi 30 punti rispetto alla media dell’area dell’euro.

La ricchezza netta delle famiglie – attualmente pari a 8,3 volte il reddito disponibile – è cresciuta in linea con la crescita del reddito disponibile (+2,7% in termini nominali, +1,3% reale). È cresciuta inoltre la ricchezza finanziaria lorda, per effetto sia del rialzo dei prezzi delle attività sia dell’accumulo di risparmio. Anche da questo punto di vista, quindi, siamo in presenza di una situazione complessivamente solida.

Analogamente alle famiglie, anche le imprese mostrano una condizione finanziaria sana. Nel 2024, i debiti finanziari sono scesi al 59 % del PIL, ben al di sotto della media dell’area dell’euro che si attesta al 106%. Si tratta della percentuale più bassa dai primi anni duemila, segno di una gestione finanziaria prudente ed efficace.

Al contempo, i rischi finanziari risultano contenuti; la leva finanziaria si è ridotta al 31,5%. I profitti delle imprese rimangono su livelli tra i più elevati dal 2000, con un margine operativo lordo ancora tra i più alti dell’ultimo ventennio (7,4%).

L’incidenza degli oneri finanziari netti sul reddito operativo, risalita al 9%, è tuttora contenuta se valutata in una prospettiva storica.

La situazione della finanza pubblica si presenta migliorata, anche grazie ai positivi risultati in termini di consolidamento dei conti pubblici, che hanno permesso di raggiungere un livello di spread ai minimi da 15 anni e quindi un miglioramento nel giudizio dalle agenzie di rating.

Nel 2024 il deficit in rapporto al PIL è risultato pari al 3,4%, inferiore di 0,4 punti percentuali rispetto alle stime del Piano Strutturale di Bilancio nonostante il quadro macroeconomico indebolito e l’aumento della spesa per interessi.

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Il rapporto debito/PIL, pari al 135,3%, è risultato inferiore alle previsioni del Piano Strutturale di Bilancio e di oltre due punti percentuali inferiore alle previsioni dell’ultimo DEF.

Il saldo primario è migliorato di ben 4 punti percentuali rispetto al 2023, tornando per la prima volta in surplus (0,4 per cento del PIL) dal 2020; si registra, ed è un aspetto molto importante, una ricomposizione della spesa primaria, con un contenimento della spesa corrente, ottenuto anche grazie al programma di revisione della spesa in corso, e un incremento degli investimenti pubblici.

Prevediamo di mantenere questa tendenza nei prossimi anni, anche grazie al PNRR, a conferma dell’orientamento verso una maggiore qualità della spesa pubblica e verso le componenti con un maggiore impatto sulla crescita economica di lungo periodo.

Bene ci fermiamo qui e ci congratuliamo della nostra parte negli eventi? Non mi parrebbe né saggio, né prudente.

Quando le cose vanno bene, il primo compito di ogni persona seria è delimitarle, inquadrarle nelle circostanze le quali vanno sempre riconosciute relative.

E appunto mai come in questi ultimi tempi esse vanno percepite tali. 

La vicenda dei dazi in sé è il sintomo di un mutamento epocale del quadro dello scambio.

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Gli Stati Uniti che con il Presidente Clinton hanno voluto la globalizzazione, con l’Amministrazione Trump fanno marcia indietro. Stiamo tornando all’impensabile fino a qualche anno fa.

Ci interroghiamo sugli approvvigionamenti di materie prime, aree mercantili nostre da cui escluderne altre. Da solo quanto è bastato nella storia economica ogni volta a generare mutamenti profondi della struttura dei prezzi e degli equilibri delle imprese e delle finanze statali. Per non dire della guerra.

Siamo passati dal dovere esclusivo della conversione energetica alla conversione verso l’industria delle armi.

Badate bene non do giudizi di valore.

Vi prego solo di considerare la velocità e la sorpresa di questa inversione impensabile solo due anni fa.

Mettiamoci in fila coi dazi e la guerra tutto il resto, crollo demografico, rischi climatici, che non sono scomparsi, rivoluzione digitale.

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E ci siamo perfettamente capiti.

In nessun anno dal Secondo dopoguerra ci siamo trovati di fronte a tanti guai, che oggi va di moda chiamare sfide.

Ma forse sarebbe meglio prima riconoscerli nella loro natura problematica. Ogni volta che qualcuno mi parla di sfida, visto le virate di cui sopra sono diventato diffidente, meglio chiamarle problemi da affrontare con serenità.

Ma veniamo al sistema bancario italiano.

L’inversione di rotta rispetto a dove eravamo dieci anni fa è netta: le banche italiane oggi presentano indicatori di bilancio e prudenziali in linea, se non migliori, della media europea; gli indicatori di mercato mostrano una tendenziale fiducia degli investitori sulle prospettive future.

Sicché può affermarsi che negli ultimi dieci anni si è assistito ad un progressivo e deciso rafforzamento.

E in esso decisivo è ammettere che è stato reso possibile per una parte non minima dall’azione sinergica di interventi legislativi e di sostegno pubblico, e di azioni di vigilanza oltre che certamente alle iniziative riuscite agli operatori del mercato bancario.

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E inoltre, proprio nell’intento di voler sempre inquadrare le buone notizie andrebbe osservato che l’economia non cresce grazie al risparmio in sé. Ma per come quanto raccolto viene poi prestato e investito così da elevare il più possibile il beneficio per l’intera economia italiana, e non solo per le sue parti, quali che siano.

E va allora anzitutto constatato che il rafforzamento in termini organizzativi, reddituali e patrimoniali delle banche italiane degli ultimi 15 anni non si è tradotto in condizioni più favorevoli al credito ma, al contrario, in una riduzione delle erogazioni alle imprese.

Dal 2011 i prestiti alle aziende, in termini nominali, si sono ridotti di oltre un terzo.

L’attività di intermediazione creditizia ha ceduto il passo alla gestione patrimoniale, determinando una riduzione della funzione classica della banca di intermediario di denaro al servizio dei fabbisogni di investimento, quantomeno di quelli non associati all’emissione di titoli.

È la metafora della rinuncia a creare ricchezza per limitarsi a gestire quella esistente? Non arrivo a dire tanto. Ma è un rischio questo del quale essere almeno più consapevoli.

Tra l’altro le banche italiane sono tra i soggetti che hanno beneficiato maggiormente del miglioramento della finanza pubblica nazionale.

Tra il 2022 e il 2024 il rapporto deficit/PIL è sceso dall’8,6% al 3,4%, nonostante il deterioramento del quadro geopolitico.

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Si tratta di un miglioramento del saldo che per la sua intensità ha un solo precedente, quello del 1997 in occasione dell’ingresso della zona Euro. A differenza di allora, questo risultato è stato conseguito senza nuove imposte generalizzate ma anzi con un alleggerimento strutturale della pressione fiscale sui redditi medio-bassi.

Anche la stabilità dell’Esecutivo, rafforzata dal supporto di cui gode il Governo a quasi 3 anni dal suo insediamento, rappresenta un fattore immateriale di cui beneficia il sistema finanziario nazionale.

Cosa sto insomma dicendo?

Per esempio, che la discesa dello spread fino a 87 punti base, il livello più basso degli ultimi 15 anni, si è tradotto e si traduce in una immediata rivalutazione degli attivi delle banche, creando condizioni più favorevoli alla concessione del credito.

E che anche il miglioramento del rating sovrano si è immediatamente traslato nell’upgrade di quello di molti istituti bancari.

In altri termini il governo e il Ministero che rappresento in questi anni hanno fatto la loro parte. Dunque, mi attenderei che le banche approfittino di questo quadro mutato e dedichino il più possibile a fare la loro: tornino a fare le banche, ovvero a raccogliere, tutelare e prestare il risparmio, guadagnando sul classico margine di interesse.

Per inciso, sia ben chiaro che il Governo non guarda alla nazionalità dei banchieri, ma soltanto alla loro capacità di rispondere a questa funzione.

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E veniamo all’altro tema cruciale del mutamento. La rivoluzione di internet che nel suo accelerarsi rappresenta per le banche un cambio di paradigma, di quadro dello scambio come lo ho chiamato finora, radicale. Tanto che esso addirittura impone di riflettere sull’adeguatezza della propria ragion d’essere.

Un sistema di accreditamento dei conti e dei pagamenti monetari come quello riuscito ad alcune cripto monete è una rivoluzione straordinaria, che da un’alternativa alle monete statali alle banche centrali e al sistema dei pagamenti delle banche.

Prima di descriverne e allarmarsi per i rischi di stabilità che pone a tutti banche, imprese e clienti, occorre capirlo e prendere atto del suo dilagare e delle ragioni di ciò.

Le criptomonete non sono solo argomento di criminalità e costruzioni piramidali di ricchezza fittizia, vanno intese anche nell’intento di controllo, relazione personale, autonomia rispetto a quanto non funziona nello stato e nelle banche.

Dunque, non si tratta di elogiarle a prescinderle, né di esecrarle, ma prima di tutto di capirle. Il mondo futuro è più simile ai loro scenari che a quelli del passato nel quale siamo fino a ieri cresciuti.

E allora va constatato come per esempio Il 70% del mercato dei servizi cloud è concentrato in quattro Big Tech e gli intermediari fanno sempre maggiore affidamento sui servizi offerti da questi soggetti per le loro funzioni operative.

Nel giro di pochi anni questi soggetti hanno conquistato una posizione centrale nel comparto dei servizi di pagamento elettronici, anche grazie alla sinergia con le altre attività commerciali offerte come il commercio on-line, e stanno adesso estendendo il loro ambito di operatività ad altri settori finanziari tradizionalmente riservati alle banche.

Oltre a offrire direttamente servizi finanziari, le maggiori Big Tech sono anche tra i maggiori fornitori di servizi informatici – tra cui quelli di cloud computing – alle banche e agli altri intermediari, aumentandone la rilevanza sistemica per il settore finanziario.

Ancora prima capire e poi agire.

Ci troviamo davanti a un quadro del sistema dei pagamenti in rapida e delicata evoluzione in tutte le sue varianti cruciali.

Se da un lato queste tecnologie digitali possono ampliare le opportunità di business e rendere la fruizione dei servizi finanziari più accessibile e veloce, dall’altro occorre aver ben presente che dietro termini quali finanza decentralizzata o cripto-attività vi è una fenomenologia molto variegata, in cui figurano prodotti e servizi diversissimi tra loro – quanto a trattamento legale, substrato economico e funzionamento tecnologico – e che in molte giurisdizioni non sono ancora regolati e vigilati, o lo sono solo in modo parziale, con una pluralità di rischi per i fruitori di questi servizi.

Questa asimmetria regolamentare e di vigilanza rappresenta un grave vulnus, posto che cittadini e imprese non hanno ancora una corretta percezione dei rischi: le criptovalute vengono offerte come strumenti per compiere pagamenti e investimenti o accedere a prestiti in alternativa al circuito bancario ma senza che vi siano regole e controlli equivalenti a quelli cui sono sottoposti gli intermediari finanziari tradizionali.

Il fenomeno è in continua evoluzione e va presidiato tenuto conto della costante crescita delle cripto-attività nel portafoglio degli italiani: a fine dicembre 2024 il valore delle valute virtuali detenute dalla clientela italiana è salito a oltre 2,6 miliardi di euro, così come risultava in aumento il numero di clienti che detenevano criptovalute, per un totale di oltre 1.6 milioni di persone.

Stando alle ultime rilevazioni disponibili, per questi fruitori non sono mancati i problemi: il 50% di chi li ha detenuti nel nostro paese registra esperienze negative, per servizi non ottimali ma anche per vere e proprie truffe e attacchi di “phishing”.

Crescenti sono poi le offerte al pubblico non autorizzate e i relativi interventi delle Autorità di vigilanza: da quando il decreto di attuazione del MiCAR ha conferito alla Consob il potere di interdire l’offerta abusiva di servizi relativi a cripto-attività tramite siti internet, quest’ultima ne ha fatto uso costante e ha oscurato complessivamente 48 siti.

A fronte di questi rischi, l’Europa si è attivata per prima per regolamentare e vigilare i nuovi fenomeni digitali: i regolamenti MICAR, TFR, DORA, e la loro trasposizione in Italia sono stati primi e fondamentali passi avanti per inquadrare queste innovazioni entro l’alveo della legalità e introdurre maggiori tutele tanto per la stabilità del sistema quanto per la protezione dei singoli investitori.

Rispetto a questa prima risposta regolamentare, stiamo valutando ulteriori iniziative domestiche tenuto conto dei rischi specifici che emergono dal costante monitoraggio di questi nuovi servizi digitali.

Manca tuttavia a livello globale un approccio regolamentare e di vigilanza omogeneo, e non sarà facile raggiungerlo nel mutato contesto geopolitico internazionale. Il che pone il legislatore europeo e nazionale di fronte al difficile quesito di cosa fare a fronte di approcci asimmetrici nella regolamentazione e nella vigilanza a livello internazionale, posto che la finanza in generale – e ancor di più la finanza decentrata e i prestatori di servizi in cripto-attività – operano in modo transfrontaliero e interconnesso.

Occorre quindi tenere ben presente il rischio di contagio qualora si dovessero materializzare crisi in intermediari sistemici al di fuori dell’Unione europea, come le grandi piattaforme di scambio di cripto-attività.

Sebbene l’interconnessione dei mercati delle cripto-attività con il sistema bancario sia ancora limitata, è in crescita e rappresenta un punto di attenzione sia per gli intermediari sia per le istituzioni chiamate a regolamentare e vigilare su queste nuove realtà.

In conclusione, non credo che risposta a questi imponenti mutamenti stia nella deregolamentazione.

Tuttavia, essa implica un agire di istituzioni e banche tradizionali attento, a cavalcare l’innovazione. Che per definizione non è comprimibile.

Ripeto ormai la tecnologia certifica un mutamento che va regolato, ma prima compreso. E al quale tutti dovremo ci piaccia o no adeguare le nostre scelte.

E perciò mi dispiace rilevare la debolezza degli investimenti nelle tecnologie. La Banca d’Italia, nella ultima indagine fintech nel sistema finanziario italiano, ha riscontrato che il processo di trasformazione digitale del sistema finanziario, per quanto in espansione, risulta limitato sul piano quantitativo e polarizzato.

Nello specifico, la spesa per investimenti in tecnologie innovative è stimata in 901 milioni per il biennio 2023-2024.

Un dato sorprendentemente basso se confrontato con gli straordinari utili registrati, e i relativi dividendi distribuiti, proprio negli stessi anni.

E non c’è solo la questione delle cripto monete, pure la questione dell’intelligenza artificiale, implicherebbe una ben altra accelerazione degli investimenti in fintech. Essi sono imprescindibili per preservare il posizionamento competitivo delle banche italiane nella dimensione europea.

E credo che la pressione competitiva di queste innovazioni riconfermi anche quanto ho in maniera un po’ brusca detto all’inizio: implica che oggi più che mai le banche si concentrino sulle loro funzioni essenziali e pertanto coltivino con somma cura, maggiore di quella presente il loro rapporto con le famiglie, le imprese e i territori che servono. 

È necessario, in altre parole, che le banche sappiano dare e segnalare il valore aggiunto che offrono, concentrandosi sulla loro funzione di tutela e valorizzazione del risparmio, e di erogazione del credito. 

Quanto a tutela e valorizzazione del risparmio, l’esperienza dell’ultimo biennio nell’adeguamento dei tassi di remunerazione dei conti correnti credo sia sintomatica della necessità di un approccio più proattivo: le banche italiane hanno giocato prevalentemente di rimessa, attivandosi sulla spinta della concorrenza delle altre banche europee e degli operatori fintech. Occorre invece che siano proattive, che sappiano consigliare la propria clientela su come ripartire in modo efficiente i risparmi tra gestione della liquidità e investimento dei medesimi in modo remunerativo.

Ma è altresì innegabile che sull’accesso al credito di imprese e famiglie è stato centrale il ruolo delle garanzie pubbliche, che hanno giocato un ruolo cruciale come dimostrato dai dati registrati. Premesso che si tratta di passività potenziali – dove lo Stato interviene solo se le garanzie vengono escusse, cioè se i prestiti non vengono rimborsati – ricordo che al 31 dicembre 2024, l’esposizione dello Stato in relazione ai finanziamenti concessi dal sistema bancario era pari a circa 294 miliardi di euro, ovvero il 13% circa del PIL.

Questa esposizione totale dello Stato comprende le garanzie per regimi c.d. emergenziali e garanzie per quelli c.d. ordinari. Le esposizioni dello Stato per le garanzie concesse in regimi straordinari, per fronteggiare l’emergenza sanitaria e la crisi energetica, si attestano a circa 110 miliardi. Le esposizioni, invece, per garanzie previste dalla normativa di riferimento ‘a regime’, si attestano a circa 184 miliardi, di cui oltre la metà relative alla Coassicurazione pubblica per il supporto del credito alle esportazioni.

Durante gli anni più difficili, le garanzie pubbliche hanno svolto un ruolo fondamentale nello scongiurare ben più gravi conseguenze finanziarie ed economiche. Hanno facilitato il credito alle imprese e aiutato le famiglie, soprattutto le più fragili, per esempio nell’acquisto della prima casa.

Il massiccio intervento da parte dello Stato durante il periodo emergenziale ha richiesto un significativo impegno di risorse a copertura delle potenziali escussioni. Ora, in un contesto segnato da vincoli di bilancio europei più stringenti, occorre cambiare prospettiva. Le garanzie pubbliche continueranno a svolgere il loro ruolo di supporto in tutti quegli ambiti caratterizzati da parziali fallimenti di mercato, e a servire come strumento di leva, funzionale a recuperare anche una maggiore compartecipazione da parte del sistema bancario.

Occorre uscire da una logica emergenziale, dove una forma di condivisione dei rischi tra il pubblico e il privato era necessaria data la eccezionalità delle crisi da affrontare, e tornare al ‘business as usual’ dove il banchiere, nel pieno della propria autonomia imprenditoriale, svolge la sua funzione di valutazione e selezione del merito creditizio, colmando l’asimmetria informativa e fungendo da ponte tra chi decide di risparmiare e chi chiede risparmio per impiegarlo in modo produttivo.

L’uscita dalla fase di strumenti eccezionali in tempi eccezionali, concepita in periodo COVID, è possibile oltre che doverosa, come dimostra il caso del settore edilizio.

Da questo punto di vista seguiamo con attenzione e preoccupazione i segnali di contrazione del credito alle imprese. Secondo rilevazioni presso gli operatori, tale andamento dipenderebbe principalmente da una contrazione della domanda, ascrivibile alla generale situazione di incertezza che contiene gli investimenti e alle significative riserve di liquidità disponibili. Non escluderei a priori che queste criticità ci siano anche dal lato dell’offerta di credito specie per le imprese più piccole, che possono essere considerate meno trasparenti e percepite come più rischiose se le banche sono troppo “distanti” dai territori in cui queste imprese operano. Ciò ci ricorda l’importanza di preservare la “biodiversità” del sistema bancario, che non credo potrà mai essere soppiantata – quanto a valore aggiunto e funzione sociale – dalla finanza decentralizzata o dall’utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale. Le persone e la fiducia continueranno a fare la differenza, anche in un mondo in cui l’intelligenza artificiale giocherà un ruolo fondamentale.

Peraltro, maggiore sostegno sui profili tradizionali della raccolta e dell’erogazione potrebbe provenire da un ripensamento delle politiche di distribuzione agli azionisti attraverso dividendi e buy-backs, in cui le nostre banche si dimostrano tra le più “attive” in Europa.

È evidente come gli eccezionali rendimenti totali riconosciuti agli azionisti negli ultimi due anni sono stati possibili anche grazie alle garanzie pubbliche prestate in occasione del COVID.

E diviene allora lecito domandarsi se non si sia di fronte a un eccesso di “finanziarizzazione” e se non sarebbe stato – e sia tuttora – meglio, non solo per la collettività ma anche per gli azionisti, reinvestire parte di queste risorse per rafforzare i presidi patrimoniali ed essere così in grado di “fare banca” al meglio anche a fronte di quel tremendo mutamento del quadro generale dello scambio, del potere delle nazioni e delle tecnologie, di cui ho già detto, e che sarà in accelerazione, ci piaccia o no, il nostro pane quotidiano nei prossimi anni.

Il banchiere, concentrato sul mero conseguimento del profitto e della sua distribuzione nel breve termine, commette il medesimo errore in cui incorre il politico teso al puro conseguimento del consenso elettorale.

L’Europa sconta tuttora un significativo ritardo rispetto agli Stati Uniti e altri Paesi asiatici nello sviluppo della “finanza di mercato”, e ciò si traduce in un vulnus di competitività, in un punto di debolezza, in quanto comporta minore capacità del sistema finanziario di promuovere l’innovazione attraverso il capitale di rischio, e di assorbire shock esogeni. Queste considerazioni appaiono ancor più critiche oggi che nell’Unione europea è necessario finanziare le nuove priorità strategiche e assicurarne l’autonomia strategica. È quindi ancor più impellente l’esigenza di sviluppare appieno la finanza di mercato, per sostenere progetti innovativi e di lungo periodo.

E qui permettetemi un’altra osservazione riguardo al riarmo e al mutamento dell’intera filiera dell’industria delle armi. Altre nazioni hanno investito cifre imponenti nell’aumento di produttività di questa filiera. L’acquisto da parte di fondi esteri di pezzi importanti di questa filiera è già in atto. E mi è allora doveroso chiedervi. Cosa fa il sistema bancario italiano? Alcune banche possiedono una conoscenza incredibile degli indici industriali e delle imprese di questa filiera, invidiabile.

Parliamone!

Il sistema nel suo complesso deve affrontare questa “sfida”.

Vorrei infine ribadire anche che strumentale alla Savings and Investment Union è il completamento della Unione Bancaria. Anche su questo fronte le linee di azione sono chiare e note da tempo: procedere a creare un sistema comune europeo di assicurazione dei depositi (EDIS) per rafforzare la fiducia dei depositanti e rendere le banche meno legate allo Stato di appartenenza; completare la riforma delle regole per la gestione delle crisi bancarie, e un primo passo è stato fatto agevolando la soluzione di crisi di banche di piccola e media dimensione; creare un “safe asset” europeo per finanziare progetti comuni.

Il migliorato rating del debito del Paese dovrebbe contribuire a rimuovere alcuni caveat pregiudiziali che hanno bloccato, in sede di confronto europeo, il progresso del negoziato.

Da questo punto di vista per esigenze di tempo richiamo solo la legge a sostegno della competitività del mercato dei capitali (Legge 21 del 5 marzo 2024) che ha segnato il primo concreto passo del processo di riforma, introducendo misure che rimuovono vincoli e stimolano, sul lato della domanda e su quello dell’offerta, la canalizzazione degli investimenti verso l’economia reale attraverso i mercati e l’impiego produttivo del risparmio.

Sempre in tale prospettiva ricordo la ambiziosa riforma organica delle disposizioni in materia di mercati dei capitali previste nel Testo Unico della Finanza (TUF) e nel codice civile al fine di rendere il mercato italiano dei capitali più profondo, liquido e attrattivo.

In conclusione, la mia presenza oggi è un segno concreto della profonda considerazione verso il ruolo delle banche e dei banchieri nel nostro sistema economico. Le banche italiane sono e continueranno ad essere il braccio operativo dell’economia del Paese, degli imprenditori che ogni giorno rischiano per fare impresa e rendere il nostro Paese competitivo. L’economia, infatti, non cresce grazie al risparmio in sé ma quando questo viene raccolto per essere prestato o investito.

Proprio per questo le banche sono centrali nel supportare la crescita economica attraverso una allocazione efficiente delle risorse; un ruolo fondamentale in un momento in cui l’Unione Europea deve ridefinire il proprio posizionamento competitivo.

Per questo voglio ribadire l’importanza che le banche continuino a meritare e coltivare la fiducia dei risparmiatori, ed erogare credito attraverso le loro capacità di analisi e valutazione del merito creditizio.

Lo Stato non ha mancato di fare la propria parte e assolvere alla sua funzione: tutelare il risparmio, la sicurezza nazionale nella sua declinazione economica, promuovere il credito per l’economia reale.

Continuerà a farlo anche nei prossimi anni, potete starne certi.

Siamo consapevoli delle sfide che abbiamo di fronte ma sappiamo anche che abbiamo le competenze e la capacità per vincerle.

Ma per vincerle l’Italia deve fare sistema, e forse con un termine forse più appropriato “squadra”: Governo, Autorità di Vigilanza, intermediari finanziari. Emulando magari il metodo di paesi a noi vicini.

È l’appello che vi rivolgo qui a Milano oggi da Roma.



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