La guerra dei prezzi, indotta dall’eccesso di capacità produttiva rispetto alla domanda interna, e la guerra dei dazi avviata da Trump stanno creando seri problemi al modello di crescita della Cina. L’analisi di Mario Seminerio, curatore del blog Phastidio
In Cina, i prezzi alla produzione sono diminuiti in giugno del 3,6 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, contro attese per un calo del 3,2 per cento. Si tratta della maggior contrazione da luglio 2023 e conferma che la guerra dei prezzi indotta da condizioni di palese eccesso di capacità produttiva e che incrocia una domanda interna tiepida e la guerra dei dazi di Donald Trump, sta creando seri problemi al modello di crescita di Pechino.
Campagna contro le guerre dei prezzi
Il regime ha quindi deciso di prendere posizione contro questa corrosiva dinamica economica. La scorsa settimana, una importante riunione di politica economica presieduta da Xi Jinping ha prodotto la critica ufficiale dell’eccessiva concorrenza sui prezzi da parte delle aziende cinesi per attirare consumatori e smaltire l’eccesso di scorte, a cui contribuiscono i dazi americani. I profitti delle aziende industriali sono scesi del 9,1 per cento tendenziale a maggio, il calo maggiore da ottobre scorso.
È quindi iniziata una campagna di stampa guidata dal Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del partito comunista, e da Qiushi, giornale di teoria politica del partito. Il termine chiave utilizzato è “involuzione“, indica la concorrenza disordinata a mezzo di ribassi di prezzo, oggi all’opera soprattutto nel settore automotive. Il ministero dell’industria teme che questa concorrenza sui prezzi distrugga i margini delle aziende, danneggi gli investimenti in ricerca e sviluppo, metta a rischio la qualità dei prodotti e persino limiti servizi post vendita come le garanzie. In breve, quello che ho definito una “Evergrande su quattro ruote”.
Le critiche centrali sono indirizzate ai governi locali, che secondo Qiushi sarebbero spinti da metriche errate che danno priorità alla crescita di breve termine. Secondo gli economisti di Morgan Stanley che coprono la Cina, il sistema di incentivi è completamente disfunzionale e distorto verso l’eccesso di produzione. A riprova, viene indicato il pesante affidamento fiscale sulle imposte indirette anziché su quelle sul reddito. L’impianto dell’imposta sul valore aggiunto premia l’espansione di capacità perché i governi locali possono fare gettito fintanto che la produzione continua a crescere.
Sono state segnalate anche carenze nelle leggi fallimentari, che impedirebbero l’eliminazione di capacità produttiva obsoleta ed eccessiva, portando ad un aumento di imprese zombie. Considerazioni molto interessanti, come si nota. Certo, vien fatto di notare, se la radice dei problemi di politica industriale ed economica cinese è l’articolazione periferica dei pubblici poteri, forse è il caso di ripensare l’architettura di sistema. Ma non allarghiamoci.
Dalla teoria alla realtà
Il problema è che è molto facile teorizzare di rimuovere capacità produttiva eccedente ed obsoleta a mezzo di soluzioni di mercato come i fallimenti. Assai meno facile è gestire i licenziamenti di massa che ciò implica, oltre ai danni che tali fallimenti infliggono ai bilanci di enti locali che, disperati dal crollo di entrate causato dallo sboom immobiliare, si sono improvvisati imprenditori.
Nel settore automotive, epicentro della guerra, il numero di aziende ancora in vita resta elevato. Secondo alcuni analisti, i costruttori avrebbero comunque accesso a generosi finanziamenti esterni, tali da compensare il cash burn e, per l’appunto, tenere in vita aziende ormai allo stato di zombie. Poi ci sono le autorità locali che offrono sussidi, terreni a basso costo e contributi agli investimenti. Chiudono la processione i fondi di private equity, che insistono a iniettare capitale in aziende in perdita sperando che possano sopravvivere al consolidamento e quindi iniziare a macinare forti utili.
Come detto, sinora le esportazioni hanno consentito di assorbire la produzione ma il ritorno di Trump alla Casa Bianca e la conseguente guerra dei dazi rischiano di rompere definitivamente lo schema. Da anni, Xi Jinping ha lanciato lo slogan della “doppia circolazione”, con cui si indica lo sviluppo della produzione al servizio dell’export ma anche dei consumi interni. I quali sono stati di recente sollecitati a mezzo di una grande campagna pubblica di rottamazione di elettrodomestici e auto, che in pratica prepara il terreno a una depressione di consumi, che vengono presi a prestito dal futuro.
Quindi, il circolo vizioso è presto disegnato: la “rigenerazione” dell’industria cinese voluta da Xi sta producendo una patologica sovracapacità produttiva, spinta anche dai crescenti guai delle amministrazioni locali, alla disperata ricerca di nuovo gettito fiscale per compensare quello immobiliare evaporato. Pensare di invertire questo sistema di incentivi perversi con appelli più o meno cogenti alla “autodisciplina” dei produttori appare piuttosto velleitario, per non dire illusorio. Su tutto, le già segnalate condizioni di difficoltà del mercato cinese del lavoro, dove le pressioni deflazionistiche della guerra dei prezzi vengono pagate soprattutto ma ormai non più esclusivamente dai giovani.
Cose che accadono quando i governi pompano incentivi e spengono i segnali di mercato. Per Xi sarà davvero difficile quadrare il cerchio. Ma direi che appare chiaro che l’Europa sarà il bersaglio necessario delle manovre di emergenza cinese per compensare la perdita dei mercati statunitensi. Non è un caso se i rapporti si sono di recente surriscaldati. E, anche con gli europei, Pechino potrà contare sul randello nodoso delle licenze all’esportazione di terre rare e minerali critici.
(Pubblicato su Phastidio.net)
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