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«Saremo costretti a rialzare i listini, situazione disastrosa per vini e food»


«Siamo oltre le peggiori previsioni. Il 10% era sostenibile con sacrifici di tutti; già il 17% ci appariva proibitivo; il 30% non è affatto riassorbibile e quindi si dovranno per forza pesantemente toccare i listini con enormi conseguenze», afferma Giacomo Ponti, da neanche un mese presidente di Federvini (e anche di Italia del gusto, un consorzio di notissime aziende del settore alimentare).

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Chi ne paga le conseguenze?

«I prezzi al consumo aumenteranno, la domanda del prodotto diminuirà e così si aprirà la strada ai prodotti generici, imitativi, evocativi del made in Italy. Io mi auguro che ci sia spazio ancora per la negoziazione e la ragionevolezza perché questi dazi portano nocumento anche gli operatori economici americani che fanno parte integrante della nostra filiera commerciale».


Quasi 2 miliardi di export di vino italiano negli Usa, 1,3 miliardi di agroalimentare generico, 492 milioni di latte e derivati, 902 di bevande e via elencando per raggiungere un totale nel 2024 di quasi 8 miliardi di euro. Ci ne soffrirà di più?

«Impossibile stimare la ricaduta, comunque disastrosa. Soffriranno di più i prodotti economici, il lusso tendenzialmente di meno. L’introduzione di un dazio di questa entità metterebbe seriamente a rischio la competitività delle imprese italiane, con pesanti ricadute anche sulle controparti statunitensi».


In che senso?

«Negli Usa, il sistema distributivo a tre livelli – importazione, distribuzione e vendita – genera valore aggiunto anche grazie alla presenza dei prodotti europei. Per ogni dollaro speso in beni europei di qualità, si attivano fino a 4,50 dollari nell’economia americana, tra occupazione, fiscalità e crescita del comparto horeca. Ripeto: i dazi al 30% sono una misura gravissima e ingiustificata, che rischia di compromettere un equilibrio costruito nel tempo, fondato sulla fiducia reciproca, sul dialogo commerciale e sulla condivisione di valori tra partner storici. Le nostre eccellenze sono parte di un ecosistema economico e culturale condiviso: ostacolarne l’accesso al mercato statunitense significa danneggiare anche le filiere e i lavoratori americani che, da anni, ne sono parte attiva».


Trump dice «venite a produrre qui in Usa». È possibile?

«Ma scherziamo? I nostri prodotti sono frutto del territorio e della nostra storia. Come si può pensare di produrre lì, per esempio, l’aceto balsamico, che è un igp? E anche volendo, lo si fa, in una notte?».


In una notte non si sostituisce neanche il mercato americano con altri. Forse in altri settori?

«È da mesi che parliamo di altri mercati. Da tempo moltissime aziende stanno investendo nello sviluppo commerciale in Medio ed Estremo Oriente. Ma è pura fantasia pensare di sostituire, il mercato americano. Gli Usa rappresentano da anni un mercato strategico per l’export italiano, in particolare per i nostri prodotti di eccellenza, che hanno saputo conquistare la fiducia dei consumatori americani».

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Ovviamente oggi siamo concentrati sul tema dazi. Ma un altro danno pesante all’export agroalimentare negli States è provocato dal minor valore del dollaro?

«Certo. L’andamento del tasso di cambio euro/dollaro è un ulteriore fattore di rischio spesso sottovalutato. Se oggi siamo tornati attorno a quota 1,18, solo sei mesi fa eravamo prossimi alla parità, e alcune previsioni parlano di un possibile rafforzamento dell’euro fino a 1,25 nel breve termine. Per un settore che esporta beni con margini già compressi, una variazione simile provoca effetti estremamente penalizzanti. Sottovalutarla sarebbe un grave errore di prospettiva».





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