Vuoi bloccare la procedura esecutiva?

richiedi il saldo e stralcio

 

Perché la corsa al riarmo in Europa


Trasforma il tuo sogno in realtà

partecipa alle aste immobiliari.

 

Non-Violence, scultura di Carl Fredrik Reuterswärd, United Nations headquarters (New York)

Gianni Alioti è attivista e ricercatore di The Weapon WatchOsservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei. Su SettimanaNews in questi mesi ha già pubblicato LItalia e gli armamenti allUcraina (28 gennaio 2025) e Il Parlamento e le armi (11 febbraio 2025), Chi boicotta le armi verso Israele? (8 giugno 2025). Profondo conoscitore delle dinamiche della produzione e del commercio delle armi nel mondo, risponde alle nostre domande sulle decisioni prese nel vertice dei Paesi NATO del 24-25 giugno scorso ad Hague (Paesi Bassi).

  • Gianni, quali sono le decisioni essenziali prese dal vertice della NATO?

È stato deciso un impegno comune[1] per aumentare progressivamente, entro il 2035, le spese militari al 5% del PIL (come soglia minima). Per il 3,5% dovranno essere spese militari secondo la tradizionale definizione NATO, mentre per il restante 1,5% saranno spese inerenti la «sicurezza allargata». In soldoni, per i paesi europei della NATO, significa passare da una spesa militare complessiva annua di 440 miliardi di euro nel 2024 (pari al 2,02% del PIL) ad una spesa militare nel 2035 di almeno 996 miliardi[2] di euro (pari al 3,5% del PIL), a cui vanno sommati circa 420 miliardi di euro per il restante 1,5% relativo alla «sicurezza».

  • Cosa vuol dire spesa militare secondo la tradizionale classificazione NATO?

La NATO sin dalla sua nascita ha classificato quali voci di spesa dovevano rientrare nel concetto di «spesa militare», al fine di disporre di un sistema di calcolo omogeneo tra i paesi membri. Nella «spesa militare» rientrano gli stipendi e le pensioni per il personale che integra le Forze Armate; le spese operative, di logistica (comprese le infrastrutture), di addestramento e di partecipazione alle missioni all’estero; l’acquisto di armamenti e munizioni, le spese di manutenzione dei mezzi e sistemi d’arma, le spese per investimenti in nuove tecnologie e nella ricerca militare.

  • E le spese per la sicurezza allargata, quali sono?

Il concetto di «sicurezza allargata» è, invece una indicazione ancora vaga. Dai documenti approvati e da alcune dichiarazioni, si fa riferimento alle spese per la cyber-sicurezza, per le infrastrutture critiche (ad esempio, i sistemi satellitari), per la logistica e la mobilità militare e per il potenziamento della capacità produttiva dell’industria bellica attraverso investimenti diretti degli Stati.

  • I programmi nucleari sono inclusi nelle spese contemplate?

La NATO include nella «spesa militare» i costi inerenti alla produzione, manutenzione e gestione delle armi nucleari e dei relativi siti che le ospitano. Non contempla le spese per l’uso civile del nucleare ai fini della produzione di energia elettrica. Nelle spese per la «sicurezza allargata» (di cui appunto non esiste ancora una definizione condivisa), c’è chi propone di includere anche le spese per la sorveglianza delle centrali nucleari civili.

Carta di credito con fido

Procedura celere

 

  • Ai Paesi che non si adegueranno nei tempi previsti cosa dovrebbe accadere? Sono previste sanzioni?

No, non sono previste sanzioni. Nel 2029 ci sarà una verifica sullo stato di avvicinamento al target definito. È chiaro che si procederà in ordine sparso. Il punto di partenza non è comune e neppure la disponibilità di spesa. Ad esempio, le spese militari in Italia nel 2024 equivalevano all’1,49% del Pil. Viceversa, la Polonia al 4,12% e la Grecia al 3,08%, avevano già superato o erano vicini all’obiettivo. La Germania – nel 2024 al 2,12% del Pil – ha dichiarato che raggiungerà il 3,5% nel 2029, anziché nel 2035. Stessa cosa non la possono dire o fare paesi come la Francia e l’Italia che devono fare i conti con livelli d’indebitamento non sostenibili.

  • Che correlazione c’è tra questa decisione dei Paesi NATO e il Piano ReArm Europe dei Paesi europei?

Le due cose si sovrappongono, per cui si è creata una certa confusione. Ma, in realtà, UE e NATO vanno nella stessa direzione: impegnare ingenti risorse pubbliche (dei singoli Stati e della UE) per il riarmo e la preparazione alla guerra. Ciò attira i mercati finanziari a investire migliaia di miliardi di dollari nei titoli in Borsa dei fabbricanti di armi. E quelli europei sono quelli che crescono di più. La decisione della NATO, come abbiamo visto, impegna i singoli Paesi membri ad aumentare le proprie spese militari al 5% del loro PIL.

Il piano ReArm Europe, assicura che gli aumenti delle spese militari dei singoli Stati membri (dal 2025 al 2028), fino a un massimo complessivo di 650 miliardi di euro, non saranno conteggiate ai fini del Patto di Stabilità e Crescita.[3] Se questa parte del piano di Ursula von der Leyen «è poco più di una scatola vuota», come ha scritto il 28 giugno Massimo Giannini sul quotidiano La Repubblica – in quanto la spesa ricade interamente sui singoli Stati e non su titoli di debito comune europeo – la stessa cosa non si può dire per altre misure adottate.

Pochi se ne sono accorti, ma in questi mesi la UE ha messo in campo risorse proprie per il riarmo intorno ai 500 mld di euro: 150 mld per la copertura finanziaria del nuovo strumento Security Action For Europe (SAFE) e per la concessione di prestiti agli Stati membri che intendono, cooperando tra loro, rafforzare le loro capacità militari e/o per la gestione di appalti comuni in campo militare, che coinvolgano più paesi; altri 100 mld di euro di finanziamenti, per prestiti a condizioni molto vantaggiose per finanziare programmi militari e/o investimenti dell’industria bellica saranno garantiti dalla Banca europea per gli investimenti (Bei); 93 mld di euro sono i fondi non ancora utilizzati del Recovery Fund (Next Generation EU) dirottati per il riarmo e l’aumento delle spese militari; 144 mld di euro del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) sono stati dirottati dalla coesione sociale al miglioramento delle capacità produttive delle imprese attive in campo militare e agli investimenti in infrastrutture di trasporto a duplice uso civile e militare. Infine, attraverso il nuovo InvestEU si punta a «sbloccare» altri 50 miliardi di investimenti pubblici e privati, per finanziare le attività più innovative a sostegno delle politiche di riarmo.

  • La decisione comporta anche un esborso diretto di ogni Paese aderente per la struttura NATO in quanto tale?

No, non esiste una quota monetaria di adesione alla NATO. Ma i paesi membri sono impegnati a contribuire finanziariamente con il loro bilancio per assicurare l’operatività e le attività dell’Alleanza.

  • Se ogni Paese aumenta la propria spesa e capacità militare al di fuori di una programmazione e di un coordinamento tra tutti, a cosa serve tutto ciò?

Mi sembra evidente che l’obiettivo del riarmo non promuove la Difesa Comune Europea che, seppure ritenuta auspicabile da parte di molti, è del tutto improbabile, vista l’assenza di uno stato federale dotato di una comune politica estera e di difesa. In realtà, si spingono i singoli Stati europei ad aumentare in modo insostenibile le loro spese militari, gonfiando il portafoglio d’ordini dei fabbricanti di armi operanti nella UE, negli USA, nel Regno Unito, in Turchia e nella Corea del Sud, arricchendo manager e azionisti di queste imprese. È di pochi giorni fa la notizia che gli azionisti del gruppo Leonardo hanno raddoppiato i loro dividendi. Tutto questo mentre il mondo è sempre meno sicuro, il diritto internazionale è fatto a pezzi e le guerre si moltiplicano per numero e intensità.

  • Quindi, perché spendere così tanti soldi: per la deterrenza, per la sicurezza, per difenderci?

Francamente, se questi fossero gli obiettivi del riarmo dovremmo ammettere che, finora, i risultati sono stati fallimentari. In realtà, le politiche di riarmo e la preparazione alla guerra sono sempre associabili a logiche di potenza.

Come ha asserito, in una recente intervista sul piano ReArm Europe, il professore emerito di Economia Civile all’Università di Bologna, Stefano Zamagni: «Oggi è l’industria delle armi che guida la danza». In altre parole, possiamo affermare che «la politica non è più libera. E chi comanda è il complesso militare-industriale-finanziario».

Opportunità uniche acquisto in asta

 ribassi fino al 70%

 

Ricordo ancora le parole di papa Francesco, il 22 marzo 2022: «Io mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2% del Pil per l’acquisto di armi come risposta a questo che sta accadendo, pazzi!». Adesso quegli stessi Stati si sono compromessi a spendere il 5% del PIL!

  • La premier Meloni ha detto che «questa decisione rafforzerà l’apparato industriale italiano di difesa»: cosa vuol dire? I soldi pubblici andranno a quali aziende?

Mi sarei meravigliato del contrario, dati i miliardi di euro di denaro pubblico che saranno ulteriormente spesi in armamenti in Italia e nel resto dell’Europa: oltre le ingenti risorse degli Stati, c’è un fiume di denaro che i mercati finanziari stanno facendo fluire – dall’inizio della guerra in Ucraina – sui titoli in borsa dei fabbricanti d’armi europei, comprese le principali aziende italiane: da Leonardo a Fincantieri, da Avio a Iveco Defence Vehicles.

Ma, se Meloni sottende che ci saranno significative ricadute economico-industriali e occupazionali, è meglio non farsi illusioni. Il rapporto di Mediobanca, sull’industria della Difesa, quantifica il valore aggiunto di questo settore in Italia nel 2023 in solo lo 0,30% del Pil, con un’occupazione diretta di 54 mila persone (un rapporto AIAD-Prometeia riferito ai dati 2021 parlava di 52 mila unità per l’insieme dell’industria aerospaziale e difesa, di cui solo 30 mila attribuibili ad attività militari).

I soldi pubblici destinati all’acquisto di nuovi armamenti andranno prevalentemente alla Leonardo e a Fincantieri (e, in cascata, alla loro rete di sub-fornitori), che da sole rappresentano il 75% dei ricavi militari in Italia (stimati da Mediobanca in circa 20 miliardi di euro); ma anche all’americana Lockeed Martin, alla tedesca Rheinmetall, alla britannica Rolls Royce, all’americana General Dynamics, all’israeliana Elta Systems e alla franco-tedesca KNDS. Tra gli altri beneficiari italiani troviamo Avio, Iveco DV, MBDA Italia, ELT Group, Avio Aero (GE Aerospace), Aerea, Piaggio Aero, OMA, Secondo Mona, Vitrociset, Intermarine, RWM Italia e Simmel Difesa.

  • Qual è la tua valutazione con the WeaponWatch?

The WeaponWatch è un osservatorio dedicato alla ricerca, al monitoraggio e all’analisi dei dati e dei fatti, non delle opinioni. Ma ciascuno di noi è anche un attivista. Crediamo nel ruolo della società civile, in particolare dei lavoratori e dei loro sindacati, nel controllo dal basso sulla produzione, sul commercio e il trasferimento di armamenti. Non possiamo restare indifferenti di fronte alla «pazzia» attuale del riarmo, delle guerre e dei genocidi in atto.

C’è un libro di John K. Galbraith Il potere militare negli Stati Uniti del 1969, che vale la pena rileggere. L’economista americano si proponeva di dare inizio a una campagna della società civile, con l’obiettivo di un controllo pubblico sulla spesa militare, ormai fuori controllo. Il complesso militare-industriale negli USA, non sottostando ad alcun accertamento, finiva per assumere decisioni per proprio conto e imporle al Congresso e ai cittadini. Una situazione che ha molte analogie con la situazione attuale, in cui la UE e gli Stati membri hanno deciso e imposto – fuori da qualsiasi dibattito effettivamente pubblico e democratico – il programma ReArm Europe e ora hanno accettato per compiacere il boss Donald Trump, di portare le loro spese militari e per la sicurezza al 5% del PIL.

In tutto il mondo le tecno-burocrazie militari-industriali sono votate a perpetuare e incrementare il loro potere attraverso un’economia di guerra. Riportare sotto un effettivo controllo politico e democratico la spesa militare significa, quindi, eliminare dai budget della Difesa tutto ciò che, rappresentando una minaccia per gli altri, contribuisce alla corsa agli armamenti. Ad esempio, la spesa fuori controllo per i caccia-bombardieri F-35 o per le portaerei a propulsione nucleare, che hanno una chiara proiezione offensiva e non di difesa.

Opportunità unica

partecipa alle aste immobiliari.

 


[1] L’impegno comune è stato assunto con il dissenso esplicito di Spagna e Slovacchia.

[2] La NATO chiede che gli obiettivi del 3,5% e del +1,5% del Pil siano raggiunti progressivamente entro il 2035, con una verifica nel 2029. Ma ciascun paese deciderà la progressione di spesa negli anni, tra l’altro, in un contesto di crescita del Pil nazionale diverso tra i vari paesi. Per questi motivi è impossibile una stima esatta di quanto costerà complessivamente passare dal target 2% al target 5% nei prossimi 10 anni. Invece è quantificabile l’aumento annuo necessario per passare dalla spesa militare del 2014 a quella corrispondente al 3,5% del Pil. Per l’insieme dei paesi europei della NATO il valore riportato è quello utilizzato nel piano industriale 2024-2028 del gruppo tedesco Rheinmetall.

[3] Il Patto di Stabilità e Crescita impone a ciascun paese Ue il rispetto del rapporto deficit/PIL (non superiore al 3%) e il rapporto debito pubblico/PIL (non superiore al 60%).

Print Friendly, PDF & Email



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Richiedi prestito online

Procedura celere

 

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link

La tua casa dei sogni ti aspetta

partecipa alle aste immobiliari!