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La “letterina” di Trump che può scatenare la tempesta perfetta


Dopo il Canada, la lettera di Donald J. Trump è arrivata anche all’indirizzo della Presidente della Commissione europea Von der Leyen. Una lettera che può essere giudicata non difficilmente “sopra le righe”, per la analisi semplificata delle ragioni del deficit commerciale americano verso l’Europa, gran parte del quale si deve al fatto che alle imprese americane di tipo manifatturiero il mercato estero è sempre importato assai poco, data la dimensione del mercato interno e soprattutto del suo tasso di crescita.
Inoltre, le imprese americane hanno un grande successo nella bilancia dei servizi, nei quali sono esportatori formidabili. Verso l’UE, per esempio, questa che segue è la situazione, e come si vede da riequilibrare non ci sarebbe granché, tutto sommato. A questo si aggiunga il fatto che le piattaforme di servizi che pagavano la webtax in Europa, non la pagheranno più, per concessione europea fatta agli Usa ante negoziato.

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Tabella 1  – Interscambio degli Stati Uniti con l’Europa, in miliardi di dollari, per i beni e per i servizi.

Fonte: nostra elaborazione su dati Unctad

Eppure, per motivi vari, il Presidente degli Stati Uniti ha annunciato con la sua lettera un dazio generalizzato verso l’UE del 30%, applicabile dal 1° di agosto. Restano 18 giorni per negoziare. Che l’annuncio sia stato “grosso” si evince dal momento della spedizione della missiva. DJT ha atteso la chiusura dei mercati, aspettandosi una reazione negativa, ma nonostante questo egli non ha esitato a mirare in alto (considerato che il dazio proposto agli europei si colloca tra quello concordato con la Cina al 35% e quello migliore proposto al Giappone del 25%, ed è assai peggiore di quello concordato con i cugini del Regno Unito del 10 per cento).

Alcune case di investimento avevano previsto l’esagerazione, perché le Borse avevano digerito la campagna dei dazi lanciata nel Liberation Day, ritornando ai massimi e perfino superandoli, e l’inflazione, inizialmente, non era cresciuta. Tutti dati che hanno incoraggiato Trump a tentare l’affondo. E’ probabile che la tecnica sia sempre quella dell’asta al ribasso. Come quelle delle zucchine di Spagna. Prezzo alto e poi si negozia.
Questa volta però ci sono tre incertezze da considerare che potrebbero scompigliare le previsioni:

  • I mercati finanziari non reagiscono sempre allo stesso modo e questa volta potrebbe partire una reazione ampia, perché d’estate la liquidità sui mercati scarseggia e le oscillazioni di conseguenza si amplificano. Ad agosto dell’anno scorso, lo yen e la Borsa di Tokyo fecero tremare i polsi a molti investitori. Wall Street e Francoforte valgono insieme molte volte Tokyo e l’effetto potrebbe non esaurirsi in un giorno solo e nella classica bolla di sapone
  • Gli europei avevano già ceduto, oltre che sulla WebTax e sulla Minimun Tax anche sull’assegnazione del 5% del Pil alla difesa, il che avrebbe comportato acquisto di mezzi dagli Usa. Solo nell’ultima settimana, la Germania aveva fatto un ordine di altri 15 F35. Infine è pacifico che continueranno gli acquisti jumbo di gas naturale dagli Usa, visto lo stato delle relazioni con la Russia, e a prezzi del GNL americano così convenienti. Alla fine, cedere su tutte le linee si è rivelata una mediocre tattica negoziale da parte europea, che invece di convincere POTUS a fare il riconoscente, l’hanno confermato nell’idea che l’Europa sia più debole negozialmente, e quindi possa essere “schiaccita” all’occorrenza. A questo punto, le cancellerie europee potrebbero votare i contro dazi, che finora avevano evitato perché sono in effetti irrazionali. I dazi peggiorano il Pil di chi li mette, così come di chi li riceve. I contro dazi, peggiorano dunque la situazione di entrambi. Ma adesso saranno probabilmente calati sul tavolo. La trattativa rischia così di diventare lunga, perché un conto è negoziare con la Cina (che ha una persona al comando), un conto è farlo con l’Europa; il punto di incontro sarà complesso e nel frattempo gli effetti economici appariranno, a meno che (TACO – Trump always chickens out , cioè Trump fa sempre marcia indietro) il 30% sia più o meno subito sospeso.
  • Se una letterina non cambia il mondo, molte letterine insieme ad altri eventi potrebbero realizzare la classica tempesta perfetta. I disastri non sono mai il frutto di un evento, ma della somma di eventi. Le catastrofi sono valanghe che partono come palle di neve. Se la prossima settimana si dimettesse Powell (probabilità non nulla, dopo aver disertato la conferenza stampa di diffusione delle minute del FOMC – Federal Open Market Committee ), i tassi di interesse a lungo termine saliranno in tutto il mondo. Si prepara un cocktail di dazi che salgono, che spingono i prezzi a salire (al rame è toccato la scorsa settimana), con tassi che reagiscono salendo, facilitano la borsa a scendere, congelano gli investimenti e frenano i consumi. Ben miscelato in un mixer, questo cocktail può produrre una recessione.

Quanto sarebbe probabile una recessione? Sempre poco, ma non zero. Infatti, tecnicamente parlando, il ciclo economico degli Usa era nella parte terminale, ossia alla fine dell’espansione iniziata nel 2022, quindi la spallata per farlo cadere non è grande. In Europa la Germania è da tempo in recessione-mini, la Francia ha chiesto per bocca del suo primo ministro alla BCE di abbassare i tassi, ed è quindi messa malino, perché i tassi europei sono poco sopra il 2; l’Italia è tornata alla crescita dello zero-virgola, ma è in recessione industriale da due anni con l’industria automobilistica che non riesce ad uscire dalla doppia crisi di elettrificazione e dipendenza da Stellantis, il marchio europeo più a soffrire, come al solito. Insomma, se si voleva rischiare una recessione, questa era proprio la mossa da fare.

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Intanto gli Usa possono fare i primi conti sui “favolosi-si fa per dire incassi dei dazi. Pare siano stati 100 miliardi di dollari nel 2025 fino al mese di maggio, quindi arriveranno a 300 o forse 400 entro la fine dell’anno. Gli Stati Uniti ci contano per ridurre il deficit che veleggiava verso i 2000 miliardi su 30 mila di PIL, il che comporta una percentuale doppia di quella media europea. Ma chi li pagherà? 3.300 miliardi di importazioni americane dal mondo costeranno più o meno il 10% in più e siccome le importazioni sono il 10% del Pil americano, il prodotto farebbe un’inflazione americana importata dell’1%. Inflazione aggiuntiva, ovviamente. Inoltre, nel frattempo il dollaro è sceso di circa il 7% come media, quindi i prodotti non quotati in dollari costeranno un altro 7% in più al consumatore americano.
L’inflazione potenziale da dazi è quindi di ben 1,7% punti aggiuntivi, se fosse pagata tutta dagli americani. Se essa sarà parzialmente assorbita dai prezzi degli esportatori (italiani, tedeschi, francesi, ecc…), gli americani dovrebbero avere un impatto complessivo di 1,2 punti del loro Pil come aumento dei prezzi o riduzione di potere di acquisto. Sempre che poi l’inflazione non riprenda a circolare (cosa che la Fed teme). Alla fine, i 400 miliardi di miglioramento del bilancio del tesoro corrisponderanno fino all’ultima cifra al calo del potere di acquisto dei consumatori americani. Dove sarebbe il vantaggio, pertanto? Nei posti di lavoro reshored in America? Difficile pensarlo: Apple preferisce  pagare il 25% sugli I-Phone assemblati in India che assemblarli in Texas. Costerebbe il quadruplo. Tuttavia, gli Usa hanno una classe dirigente che ritiene che il mercantilismo assicuri vantaggi sulla globalizzazione, il che non è ovviamente possibile, tuttavia è un dato di fatto che i vantaggi del commercio si distribuiscono secondo le libere ragioni di scambio, espresse dai cambi, mentre gli svantaggi del protezionismo si distribuiscono secondo la regola del più forte (non a caso il commercio era difeso dai cannoni, nell’epoca mercantile): in questo senso il ritorno al mercantilismo è certamente peggio per tutti, ma un po’ meno peggio, almeno temporaneamente, per gli Stati Uniti.

Queste stime sono cifre di consenso, ampiamente diffuse e note, nonché basate sul fatto che a fine 2025 il dazio medio Usa sarà fissato intorno al 15-17%. Le pretese delle ultime 4 letterine (a Giappone, Corea del Sud, Canada ed EU) sono però molto più alte. Dovessero mai prevalere quelle cifre, i conti sarebbero da rifare e la tinta del Pil (sia europeo che Usa) si colorerebbe di rosso.
Per l’Italia il 30% è un valore che possiamo tranquillamente considerare non sostenibile. Qui sotto una tabella con l’impatto calcolato in miliardi di perdite di esportazioni nei tre maggiori paesi europei in caso di dazi aggiuntivi del 30% sulle esportazioni verso gli Usa.

Tabella 2 – Effetti simulati annuali di variazione delle esportazioni verso gli Usa, in miliardi di euro,
per settore, a causa di un dazio del 30% imposto dagli Usa sulle importazioni dalla UE.

Fonte: nostre elaborazioni su dati OEC.world

I circa 67 miliardi di esportazioni Italiane e 5,6 piemontesi sarebbero esposti per quasi la metà anche perché la rivalutazione dell’euro ci aggiunge del suo e la somma di dazio (30%) e rivalutazione dell’euro (10%) renderebbe più care del 40% le merci europee. A questo punto, entrerebbero in gioco gli effetti sia di trade cut (l’America che riduce i consumi) che di trade diversion (l’America che sceglie beni interni o di altre provenienze), che sono in effetti stimati nel modello di OEC.WORLD e riportati in tabella.

L’introduzione del 30 % sulle esportazioni UE verso gli Stati Uniti, dal 1° agosto 2025, rischia pertanto di erodere 138,56 miliardi di euro al solo livello dei tre principali paesi, corrispondendo al 27,6 % dei 502 miliardi esportati dall’UE verso gli Usa nel 2023.
La Germania, prima vittima, subirebbe 79,51 miliardi di perdite (50,4 % dei suoi 157,7 miliardi di export USA), pari all’1,9 % del suo PIL da 4 260,7 miliardi, con gli USA che pesano per il 10,4 % delle sue esportazioni mondiali.
La Francia vedrebbe un calo di 27,46 miliardi (–41,8 % sui 65,7 miliardi), pari all’1,0 % del suo PIL di 2 782,6 miliardi e al 3,6 % delle sue esportazioni globali.
L’Italia subirebbe 31,59 miliardi di perdite (–46,9 % sui 67,3 miliardi di export USA), un impatto pari al 4,9 % dei suoi 645 miliardi di vendite estere e all’1,5 % del suo PIL da 2 089,4 miliardi. A livello settoriale, macchinari (33,86 miliardi, 6,7 % dell’export UE verso USA) e mezzi di trasporto (26,66 miliardi, 5,3 %) rappresentano il 12 % del flusso transatlantico. La Germania sarebbe duramente colpita proprio nei macchinari (20,91 miliardi, 13,3 %) e sui mezzi di trasporto (18,96 miliardi, 12,0 %), mentre l’Italia evidenzia anche essa una vulnerabilità particolare nei beni strumentali (6,73 miliardi, 10,0 %) e nei mezzi di trasporto (4,51 miliardi, 6,7 %), ma anche nella chimica e farmaceutica (3,89 miliardi), nella metallurgia (2,19 miliardi) e in comparti tipici del made in Italy come il settore tessile (1,66 miliardi, 58,7 % dell’impatto dei 3 paesi UE), le calzature (1,04 miliardi, 72,7 % dei 3 paesi) e la pelletteria (0,83 miliardi, 49,4 % dei tre paesi). L’industria leggera e diversificata italiana in un caso come questo diffonde lungo tutto lo stivale e attraverso tutte le filiere i danni di un super-dazio verso il paese che rappresenta la terza nostra destinazione di sbocco delle vendite all’estero.

Se dovessimo avere un calo dell’export nazionale di 31 miliardi a livello italiano e di 2,1 a livello piemontese, considerando che il Valore Aggiunto (ossia il contenuto di Pil) delle esportazioni è tra il 35 e il 40% e considerando che il moltiplicatore di breve termine delle esportazioni è intorno a 1,1, l’impatto finale sul Pil atteso dovrebbe essere di -0,4% sulla Francia, -0,6% sull’Italia e -0,8% sulla Germania, inoltre -0,7% sul Piemonte.

Siccome la crescita italiana tendenziale è +0,6% e 0,42% quella in Piemonte (fine 2024), l’Italia scivolerebbe in mini-recessione, come la Germania, e il Piemonte avrebbe un destino segnato di rosso. I prossimi 18 giorni negoziali sono cruciali per il nostro paese, promosso in economia dalle istituzioni europee, ma al quale la domanda interna proprio non basta per stare in equilibrio economico. Per l’Europa la partita è delicata. Per l’Italia e il Piemonte la partita è vitale. Si tratta di venirne fuori con una cifra finale lontanissima da quella sparata da POTUS sabato, a mercati chiusi.

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