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DAZI, NON È LA FINE – Costozero, magazine di economia, finanza, politica imprenditoriale e tempo libero


Gianmarco Ottaviano, professore Economia Politica Università Bocconi

Per il professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, Gianmarco Ottaviano, «non saranno le sole imprese estere a pagare il fio. Lo insegna quanto accaduto nel corso della prima amministrazione Trump. C’è scarsa evidenza che le politiche protezionistiche di allora siano state, a parte alcuni settori specifici, efficaci per contenere la concorrenza, mentre è certo che furono i prezzi interni agli Usa a subire un deciso rialzo»

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I dazi stanno tornando a essere protagonisti delle guerre commerciali internazionali. Ma la storia cosa dice sulla loro efficacia per proteggere l’economia di chi li adotta?

I dazi sono uno strumento storico, usato fin dagli albori dei rapporti economici. Un po’ come le mura di cinta delle nostre città italiane, un vero e proprio muro fisico che un tempo delimitava una zona urbana, al cui interno l’ingresso di merci era soggetto al pagamento di una tassa utile a raccogliere del gettito per pagare i bisogni, diciamo, di sicurezza di ordine pubblico delle città, oppure quelli delle elite, in un contesto economico i dazi limitano l’accesso di beni stranieri al mercato interno, con l’intento di proteggere le industrie locali.

Se tuttora in società non molto sviluppate, come per esempio nel Continente Africano, è l’unico modo in cui i governi riescono a fare cassa, in Paesi industrializzati non possono di certo sostituire il gettito fiscale derivante da redditi, profitti e altre tasse. La loro efficacia in questo senso è assai limitata, dati ed esperienze passate alla mano.

A pagare il prezzo di questa scelta politica potrebbe essere, come molti paventano, la stessa economia statunitense?

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Il dazio viene pagato sulla transazione che passa i confini quindi, in un certo senso, come logica è assimilabile alla nostra IVA.

Ma su chi pesa l’effetto?

È una questione di rapporti bilaterali: i consumatori americani finiranno per pagarne una buona parte, un’altra potrà ricadere sugli esportatori esteri, nella misura in cui per mantenere quote di mercato, saranno disposti a abbassare un po’ il prezzo. Di certo non saranno le sole imprese estere a pagare il fio. Lo insegna quanto accaduto nel corso della prima amministrazione Trump. C’è scarsa evidenza che le politiche protezionistiche di allora siano state, a parte alcuni settori specifici, efficaci per contenere la concorrenza, mentre è certo che furono i prezzi interni agli Usa a subire un deciso rialzo.

Cosa è lecito aspettarsi se i dazi imposti dagli Usa diventeranno effettivi anche per l’Europa? Quali gli effetti su fiducia, consumi, investimenti, mercati finanziari e politiche economiche per il nostro Paese?

Credo che sia opportuno non allarmarsi. Quelle imprese che hanno prodotti unici, poco sostituibili, difficilmente subiranno contraccolpi significativi ma cosa succederà se continuiamo su questa traiettoria? A preoccupare più di ogni altro aspetto è il grande danno già fatto all’economia globale, quel clima di perdurante incertezza per cui non si sa cosa succederà domani, se le gabelle ventilate saranno confermate, se ci saranno ritorsioni europee o dietrofront come già accaduto con Messico e Canada durante la prima amministrazione.

Insomma il futuro è un’incognita ed è proprio questa grande incertezza a penalizzare di più le imprese ritardandone le scelte di investimento.

Il WTO, Organizzazione Mondiale del Commercio, che ruolo può assumere nella guerra dei dazi?

Il WTO è, a mio parere, una delle vittime dell’incertezza cui accennavo. Si tratta di un organismo multilaterale che si occupa di promuovere e gestire le regole del commercio internazionale in modo equo e trasparente, mettendo attorno a un tavolo i Paesi in disaccordo per risolvere in modo civile gli attriti, avviando un processo che prevede l’esame delle questioni critiche – come è appunto quella dei dazi americani – da parte di un panel di giudici. Se questo determina che i dazi sono illegittimi, il Paese coinvolto – adeguandosi al parere degli giudici – deve, o meglio dovrebbe, rimuovere le misure in violazione.

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Gli americani, Trump in testa in questo caso, hanno mostrato di non gradire questo approccio multilaterale, ritenuto lungo, farraginoso, lento. In questo momento, dunque, tutto ciò che accade sta succedendo in violazione delle regole del WTO, peraltro depotenziato e in qualche misura paralizzato a causa della mancata nomina di alcuni giudici ad opera proprio degli Stati Uniti.

Una “nuova”, ancora poco battuta traiettoria di crescita per l’Europa potrebbe essere aprirsi agli scambi con l’India, potenza emergente che sta ridisegnando gli equilibri dell’economia globale?

Chiaramente se si chiude – o riduce – un mercato così importante come quello americano, avremo necessità di trovarne un altro o, meglio, altri.

Esistono mercati che offrono una vasta gamma di potenzialità in termini di consumo, occupazione e investimenti per i nostri prodotti.

Penso ai Paesi che rientrano nel blocco commerciale del Mercosur, il Mercato Comune del Sud America creato da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, di cui sarebbe importante che l’Unione Europea accelerasse la ratifica.

Anche l’India rientra sicuramente tra i Paesi alternativi, potremmo dire, così come la Cina.

Certo, si tratta di riposizionamenti non semplicissimi tenuto conto che si tratta di un sub continente estremamente diseguale e variegato al suo interno, con diversi gradi di sviluppo, diverse possibilità di spesa, differenti culture, tradizioni, storie e costumi.

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Non allarmiamoci, dunque. La situazione è seria ma sfidante al tempo stesso perché se gli Usa ritirano la loro proiezione internazionale, si apriranno inevitabilmente spazi nuovi per la nostra impresa, con nuove occasioni di business e di accesso a mercati fin qui poco battuti.



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