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Imposta 26% su bond digitali: chiarimenti del MEF 2025



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Con l’interrogazione parlamentare n. 5-04222 del 10 luglio 2025, presentata alla Commissione Finanze della Camera dei Deputati (primo firmatario l’on. Giulio Centemero, Lega), è stato sollevato un importante quesito in merito al regime fiscale applicabile ai proventi derivanti da strumenti finanziari emessi mediante tecnologia a registri distribuiti (Distributed Ledger Technology – DLT).

Gli interroganti hanno chiesto chiarimenti sull’applicabilità dell’imposta sostitutiva del 26% agli strumenti digitali – come i digital bond – in particolare nei casi in cui la loro emissione e circolazione avvenga senza l’intermediazione di soggetti abilitati, rendendo così inapplicabili i tradizionali meccanismi di imposizione fiscale basati su banche, SIM o altri operatori.

Il quadro normativo di riferimento

Al centro del dibattito ci sono i cosiddetti digital bond e, più in generale, gli strumenti finanziari emessi in forma digitale. Già il DL 25/2023, noto come Decreto FinTech, aveva introdotto la nozione giuridica di “strumenti finanziari digitali”, adeguando l’ordinamento italiano al Regolamento (UE) 2022/858. Il principio guida è semplice: questi strumenti sono da considerarsi in tutto e per tutto equiparati agli strumenti finanziari tradizionali, fatta eccezione per le modalità di emissione, registrazione e trasferimento, che avvengono su infrastrutture decentralizzate.

La relazione illustrativa al decreto FinTech e la circolare 30/E del 2023 dell’Agenzia delle Entrate avevano già chiarito che ai proventi derivanti da tali strumenti si applicano gli stessi articoli del TUIR previsti per le obbligazioni classiche: l’articolo 44 per i redditi di capitale e l’articolo 67 per i redditi diversi di natura finanziaria.

Il problema della disintermediazione

Fin qui nulla di nuovo. Il vero problema nasce quando l’emissione e la circolazione degli strumenti digitali avvengono in modo totalmente disintermediato, senza banche, SIM o altri soggetti terzi. È qui che il sistema normativo vigente, pensato per una finanza “con intermediari”, comincia a mostrare i suoi limiti.

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Nel caso degli strumenti digitali privi di intermediari – quindi gestiti interamente su blockchain pubbliche, peer-to-peer – il MEF ha chiarito che l’imposta sostitutiva del 26% deve essere applicata direttamente dall’emittente. Questo vale per tutti i percettori: i cosiddetti “nettisti“, ma anche i “lordisti” e persino i soggetti non residenti, anche se provenienti da Paesi white list che, in linea teorica, avrebbero diritto all’esenzione.

Investitori esteri

Un aspetto particolarmente delicato riguarda proprio gli investitori esteri. Secondo quanto stabilito dal D.Lgs. 239/1996, la loro esenzione dall’imposta sostitutiva è condizionata al deposito dei titoli presso intermediari abilitati. Ma in un contesto disintermediato, questo presupposto viene meno. Di conseguenza, l’esenzione non può essere applicata direttamente, e l’unica possibilità rimasta per gli investitori non residenti è chiedere successivamente il rimborso dell’imposta già pagata. Un meccanismo poco efficiente, che rischia di minare l’attrattiva di questi strumenti per il pubblico internazionale.

Necessario un aggiornamento

Se da un lato il chiarimento fornito dal MEF è coerente con il quadro normativo vigente e garantisce certezza fiscale, dall’altro solleva dubbi sull’adeguatezza di tale impianto alle dinamiche del FinTech. Il modello previsto dal D.Lgs. 239/1996 si basa su presupposti – la presenza di un intermediario e il deposito fisico dei titoli – che mal si conciliano con la logica della blockchain, basata su decentralizzazione, automazione e disintermediazione.

La conseguenza? Un sistema fiscale che rischia di frenare lo sviluppo degli strumenti digitali proprio per le rigidità dei suoi meccanismi, con il paradosso che un digital bond potrebbe risultare meno conveniente di un’obbligazione tradizionale.

Alla luce di quanto emerso, appare sempre più evidente l’esigenza di un intervento normativo di adeguamento. L’obiettivo dovrebbe essere quello di preservare lo spirito del D.Lgs. 239/1996 – che ha finora garantito semplicità e certezza fiscale – adattandolo però ai nuovi strumenti del mercato digitale. Senza una riforma, il rischio è quello di vedere il potenziale della finanza decentralizzata imbrigliato da regole pensate per un’altra epoca.



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