“La stabilità è destabilizzante.”
C’è una cosa che rende pericolose le crisi finanziarie: il fatto che, prima di arrivare, sembrano sempre lontane. O peggio: impossibili. Quando i mercati salgono, i tassi sono bassi, e tutto scorre tranquillo… è proprio lì che nasce il problema. Lo sapeva bene Hyman Minsky. E forse oggi dovremmo rileggerlo, anche solo per capire in quale parte della curva ci troviamo.
Negli ultimi giorni, Donald Trump ha rilanciato la sua strategia commerciale più aggressiva: dazi del 50% sul rame, fino al 200% sui farmaci importati. Eppure, i mercati hanno reagito a malapena. Lo S&P 500 è sceso dello 0,07%. Il Nasdaq ha addirittura chiuso in positivo. Ma questa calma, per chi guarda sotto la superficie, è più inquietante che rassicurante. Perché sotto, nel cuore della struttura economica americana, qualcosa si muove. E scricchiola.
Il problema non sono le big. Le grandi aziende quotate – Apple, Microsoft, Amazon – sono solide, ricche di cassa e capaci di navigare anche in acque agitate. Il problema sono le piccole. Quelle che nessuno vede. Quelle che fanno il 74,8% del totale delle small cap americane secondo la professoressa Leila Davis. Aziende che oggi operano con flussi di cassa negativi. Che non riescono a generare utili veri. E che vivono solo grazie alla fiducia degli investitori. Una fiducia che, se si rompe, le spegne. Questo ci dice che la crescita è concentrata nelle big tech, ma che sotto la superficie, l’economia di mercato non è così uniforme.
Il problema è che questa illusione di stabilità porta le imprese a finanziarsi in modo sempre più fragile, spesso contando sul fatto che i mercati saranno sempre aperti a nuovi capitali o che i tassi resteranno bassi per sempre.
Minsky definì tre stadi di finanziamento aziendale:
- Hedge finance: l’impresa genera abbastanza cash flow per coprire interessi e capitale del debito.
- Speculative finance: l’impresa può pagare solo gli interessi, ma ha bisogno di rifinanziare il capitale.
- Ponzi finance: l’impresa non riesce nemmeno a coprire gli interessi senza ottenere nuovi prestiti o capitali.
Quando le condizioni economiche sono buone, molte imprese passano silenziosamente dal primo al secondo, poi al terzo stadio. Finché arriva uno shock improvviso – come una crisi finanziaria o una guerra commerciale – e salta tutto insieme.
E oggi ci troviamo nella classica dinamica del finanziamento Ponzi: ti reggi in piedi solo se qualcuno ti finanzia, non perché il tuo modello economico sia sostenibile. Ecco dove entra in gioco Minsky. Secondo la sua teoria, più lungo è un periodo di stabilità apparente, più le persone – e le imprese – abbassano la guardia. Si convincono che “questa volta è diverso”. Che i tassi resteranno bassi per sempre. Che il credito sarà sempre disponibile. Che il mercato li salverà, comunque.
Finché arriva uno shock. Un evento esterno. E il castello crolla.
Gli effetti su inflazione, portafogli e mercati
Non è la prima volta che succede.
Nel 2008, fu la crisi dei subprime. Tassi bassi, mutui concessi a chi non poteva permetterseli, banche troppo esposte. Tutto reggeva. Finché non ha più retto. E si è passati, nel giro di mesi, da “nessun problema” a Lehman Brothers in bancarotta.
Nel 2001, scoppiò la bolla Dot-com. Startup senza utili, finanziate a oltranza perché “prima o poi monetizzeranno”. E quando la fiducia è finita, sono sparite. Webvan, Pets.com, eToys. Bruciate in settimane.
Nel 1998, fu il default della Russia a far crollare LTCM, uno dei fondi hedge più sofisticati di sempre. Il problema non era il default in sé. Era l’esposizione nascosta. Era la leva. Era il fatto che tutto sembrava tranquillo. E invece no.
Occhi puntati su Inflazione e trimestrali: banche, semiconduttori e Netflix
Martedì esce il dato sull’inflazione americana. È uno di quei numeri che fanno la differenza tra una Fed che taglia i tassi e una Fed che aspetta. E proprio questo è il punto: la Fed probabilmente aspetterà.
Gli economisti si aspettano un’inflazione “core” (quella che esclude cibo e carburanti, e che la Fed guarda con più attenzione) in crescita del 2,9% rispetto all’anno scorso, e un aumento mensile dello 0,3%. Insomma, non abbastanza bassa da far suonare il campanello del taglio dei tassi.
Per ora, infatti, il mercato scommette su appena il 4,7% di probabilità che la Fed tagli i tassi questo mese. Un mese fa era il 20%. Le probabilità si stanno riducendo perché… i dazi complicano tutto.
Secondo Bank of America, i nuovi dazi alzano il tasso effettivo sulle importazioni al 14%, dal livello precedente del 12%. Questo vuol dire che le merci importate costano di più, e quindi la Fed non può abbassare i tassi troppo in fretta, altrimenti rischia di alimentare l’inflazione proprio mentre cerca di spegnerla.
Trump, però, non ci sta. Ha chiesto pubblicamente le dimissioni di Powell, il presidente della Fed, perché vorrebbe tassi più bassi subito. Ma Powell ha detto chiaramente che la banca centrale ha bisogno di “chiarezza” sugli effetti delle nuove politiche. E con tutti questi dazi che entrano, escono, si annunciano e si smentiscono, di chiarezza ce n’è ben poca.
Oltre all’inflazione, questa settimana porta anche una valanga di trimestrali. Iniziano le grandi banche americane, e ci sarà molta attenzione sull’umore nei mercati M&A e IPO. Wells Fargo, ad esempio, esce finalmente da 10 anni di restrizioni regolatorie. Potrebbe essere una delle sorprese positive.
Poi tocca al tech. Netflix aprirà la stagione delle mega-cap, seguita da ASML e Taiwan Semiconductor, due nomi chiave per l’industria dei chip e l’AI. I numeri che daranno ci diranno molto sulla salute della “nuova economia”.
Anche aziende più tradizionali come PepsiCo, United Airlines e American Express pubblicheranno i loro risultati. Il consenso degli analisti, secondo FactSet, è per una crescita degli utili del 5% nel secondo trimestre. Sarebbe la più bassa dall’autunno scorso. Ma attenzione: il terzo trimestre è visto in crescita del 7,3% e l’anno intero dovrebbe chiudersi con un +9%.
In pratica, secondo gli analisti, il peggio è passato, e i profitti delle aziende stanno tornando a salire.
Correlazione tra Dollaro, tassi di interesse e revenue delle Small Cap
Ampliamo la lente e guardiamo al comportamento di un altro protagonista silenzioso ma potentissimo: il dollaro. Negli ultimi mesi, il Dollar Index – cioè l’indice che misura il valore del dollaro rispetto a un paniere di valute come euro, sterlina e franco svizzero – è sceso da quota 110 a 97. Una discesa del 13%, che ha fatto parlare molti analisti di “dedollarizzazione” e fuga dal biglietto verde.
Ma perché il dollaro è sceso tanto? Le ragioni sono diverse. C’è la volontà politica – Trump vuole un dollaro debole per rendere più competitiva l’America. C’è la sfiducia dei mercati in una Casa Bianca percepita come poco prevedibile. E c’è l’enorme debito americano che spaventa gli investitori, soprattutto in vista di nuove misure fiscali che aumenteranno ancora di più il fabbisogno di finanziamento pubblico da qui al 2034.
E qui entra in gioco la relazione tra dollaro, i tassi d’interesse e l’andamento degli utili delle aziende small cap americane. In teoria, tassi più alti negli Stati Uniti attirano capitali, rafforzando il dollaro. Ma in primavera questa correlazione si è rotta: i tassi salivano e il dollaro continuava a scendere. Ora però, dopo la nuova minaccia tariffaria, i tassi sono tornati a salire – il decennale al 4,41%, il trentennale vicino al 5% – e con loro anche il dollaro. Si sta forse ripristinando la storica correlazione?
Per ora sì. Ma la posta in gioco è alta. Perché se i tassi americani salgono troppo, due cose possono accadere: si mette pressione sul governo USA, che deve rifinanziare il debito a costi più alti, e si raffredda il mercato azionario, che oggi si trova su livelli molto tirati. L’indice S&P 500 è sui massimi storici, ma il suo “premio a rischio” – cioè la differenza tra il rendimento delle azioni e quello dei bond – è quasi zero. In pratica, oggi il mercato azionario è “caro” rispetto all’obbligazionario.
Le small cap (cioè le aziende a piccola capitalizzazione, come quelle che trovi nel Russell 2000) sono spesso aziende domestiche, cioè vendono la maggior parte dei loro prodotti e servizi all’interno degli Stati Uniti, e non all’estero come fanno molte multinazionali.
Ora, quando il dollaro è debole, succedono due cose:
- Le aziende che esportano (come le big tech o le multinazionali) guadagnano di più, perché i loro prodotti diventano più economici per chi compra in euro, yen o altre valute. I ricavi salgono.
- Ma le aziende che comprano materie prime o prodotti dall’estero (come molte small cap), pagano di più, perché devono usare più dollari per acquistare le stesse cose. Questo può aumentare i loro costi.
Quindi, un dollaro debole può danneggiare i margini delle small cap, almeno nel breve termine.
Ma c’è un altro aspetto, positivo.
Quando il dollaro si indebolisce, spesso succede perché la Fed sta tagliando i tassi o perché l’economia USA sta rallentando. In quei casi, i tassi di interesse scendono, e questo è molto positivo per le small cap, che di solito hanno più debiti e più costi finanziari rispetto alle grandi aziende. Se il debito costa meno, gli utili migliorano.
Inoltre, un dollaro debole può essere un segnale di maggiore propensione al rischio (“risk-on”): in quei momenti gli investitori vanno a caccia di rendimento e spesso si buttano proprio sulle small cap, che sono più volatili ma offrono più potenziale di crescita.
Oggi in che fase siamo ?
Il problema è che tutto questo ottimismo si basa su un equilibrio fragile. Gli indici sono tirati, i prezzi delle azioni sono alti, ma le small cap non seguono. Il Russell 2000, ad esempio, non ha ancora raggiunto nuovi massimi, segno che la forza è concentrata solo in pochi titoli grandi.
Nel frattempo, le materie prime risalgono. Argento vicino ai 40 dollari, oro ancora forte, petrolio sopra i 70. E il Bitcoin? Resta sopra i 117.000 dollari, capitalizzando come il sesto asset più grande al mondo, appena dietro Amazon. Per ora, non ha reagito ai dazi. Ma la sua forza sembra legata a un tema più grande: la ricerca di beni alternativi, in un mondo dove dollari e obbligazioni non danno più certezze.
La lezione? Non è la crisi che fa male. È l’eccesso di fiducia che viene prima.
E oggi quella fiducia c’è. I mercati sono tranquilli. Il credito è ancora abbondante, anche se più caro. Gli investitori credono che Trump, come al solito, stia bluffando. Che le tariffe siano solo uno strumento negoziale. Che Wall Street reggerà. Sempre.
Ma cosa succede se stavolta sbagliano?
Cosa succede se gli investitori smettono di finanziare aziende che non generano cassa? Se i costi delle materie prime salgono in modo strutturale? Se il credito si contrae ancora?
Succede quello che Minsky chiamava il “momento Minsky”. La crisi che diventa visibile. La fiducia che evapora. Il sistema che, silenziosamente, si frattura.
Per chi investe, il messaggio è semplice: non bisogna farsi ingannare dall’euforia superficiale. Non è il rally a raccontarti cosa succede davvero. È la struttura. Le aziende con fondamentali deboli. I modelli che non stanno più in piedi con l’aumento dei tassi. I segnali che nessuno vuole vedere finché è troppo tardi.
Oggi più che mai, serve prudenza. Serve diversificazione. Serve capire che l’eccesso di tranquillità è spesso il preludio alla tempesta. E che gli investitori migliori… sono quelli che sanno riconoscere quando il silenzio è troppo silenzioso.
Perché il momento Minsky non arriva con una sirena. Arriva quando nessuno se lo aspetta. Ma lascia il segno. Sempre.
Per riassume la teoria di Minsky
Il vero rischio non è solo se Trump manterrà o meno le promesse sulle tariffe.
Il rischio è che questi shock tariffari possano innescare un crollo di fiducia, proprio mentre un’intera fascia di aziende americane è strutturalmente non in grado di autofinanziarsi.
- 🧨 Basterebbe che gli investitori smettessero di finanziare questi modelli Ponzi.
- 🧨 Basterebbe che i costi (come il prezzo del rame) salissero in modo strutturale.
- 🧨 Basterebbe che il credito diventasse meno disponibile.
E come in ogni “momento Minsky”, la fragilità nascosta viene a galla tutta insieme.
Minsky ci insegna che i problemi più pericolosi non nascono nei momenti di crisi, ma si costruiscono nei momenti di apparente stabilità.
Le minacce di Trump, i rialzi delle materie prime, la fragilità del credito e il boom delle aziende non profittevoli non sono un insieme casuale di eventi. Sono l’ambiente perfetto per un rischio sistemico sottovalutato.
Il momento Minsky non si annuncia: scatta all’improvviso. Sta a noi riconoscerne i segnali.
Ho approfondito e spiegato la teoria di Minsky in questo video sul mio canale Youtube @marcocasarioextra (mi segui vero? ;))
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