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Progettare il cambiamento, non basta l’innovazione


Progettare il cambiamento, prevenirlo, persino provocarlo: è la postura necessaria per affrontare le grandi sfide che le tecnologie ci pongono e alla velocità a cui le stanno presentando. Non basta più accogliere le innovazioni.

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C’è una lezione antica che ci accompagna da sempre, ovvero che l’uomo impara finché vive. È una verità profonda, quasi biologica: imparare è la condizione stessa del vivere. Tuttavia, nel tempo che stiamo attraversando, questa verità si è ribaltata in una nuova consapevolezza: le aziende vivono finché imparano. E chi non impara, chi non evolve, semplicemente scompare.

Progettare il cambiamento, non basta accogliere le innovazioni

Il mondo corre. Le tecnologie avanzano con una rapidità che sfida il nostro stesso ritmo percettivo. E noi, umani e organizzazioni, siamo costretti a ripensarci continuamente. In un tale scenario, non basta più accogliere le innovazioni che ci si presentano davanti. Dobbiamo imparare a guardare oltre il visibile, ad abitare il futuro prima che si manifesti. Dobbiamo allenare una nuova forma di apprendimento: “l’apprendimento anticipatorio”. Non possiamo limitarci a reagire al cambiamento, ma, dobbiamo prevenirlo, progettarlo, a volte persino provocarlo.

Chi si attarda, chi si accontenta di gestire l’esistente, rischia di fare la fine degli ice cutters, le imprese che, prima dell’invenzione del frigorifero, producevano e distribuivano ghiaccio naturale. Furono spazzati via da una tecnologia più efficiente e meno dipendente dalla geografia o dal clima. Nessuno li ha “sconfitti”: sono semplicemente scomparsi, superati da un’innovazione che non avevano previsto.

Ma se tutto questo è chiaro, se l’innovazione è una questione di sopravvivenza, allora perché tanti ancora esitano? Che cosa ci frena nell’abbracciare la tecnologia e le innovazioni che comporta? Spesso è la paura. Una paura profonda, atavica, la sindrome del “ranocchio elettronico”.

Una rivisitazione del celebre apologo dello scorpione e del ranocchio: lo scorpione chiede al ranocchio di aiutarlo ad attraversare lo stagno, promettendo di non pungerlo, ma a metà strada lo punge comunque, condannando entrambi. Alla domanda “perché?”, risponde: “Era nella mia natura”.

L’equilibrio fra uomo e tecnologia

Ecco: temiamo che la tecnologia possa, prima o poi, rivelare la sua “natura” ostile, disumanizzante, e che non potremo farci nulla. Temiamo di essere traditi da ciò che abbiamo creato.

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Ma cedere a questa paura significherebbe rinunciare al nostro ruolo storico: quello di architetti del futuro, non sue vittime passive.

Da sempre l’uomo è stato visto come il collo di bottiglia nel rapporto con la macchina. Troppo lento, troppo imperfetto. Un esempio eloquente è quello dell’ENIAC, il primo calcolatore elettronico general purpose della storia. Quando si trattò di risolvere un’equazione di von Neumann, la macchina impiegò due minuti per il calcolo, ma gli operatori umani ne impiegarono ventotto per perforare le schede necessarie. Trent’anni dopo, l’informatica esplodeva. Eppure, l’uomo era — ed è tuttora — indispensabile. Perché senza l’uomo nel processo (human in the loop), nessun sistema può funzionare pienamente.

Non è la tecnologia in sé a determinare il senso del cambiamento. Siamo noi. Siamo noi a decidere se una tecnologia costruisce ponti o innalza barriere. Se riduce il digital divide tra popoli e individui o se lo amplifica. Se migliora la qualità della vita o se la rende più alienata. Ed è una scelta che va fatta con responsabilità, visione e coraggio.

Il vero compito dell’uomo contemporaneo non è quello di opporsi alla tecnologia, ma di indirizzarla, di governarla. E questo richiede equilibrio: evitare tanto l’azione cieca quanto l’immobilismo difensivo. L’azione cieca porta all’adozione sconsiderata di ogni novità, senza chiedersi “perché” o “per chi”. L’immobilismo difensivo porta invece a bloccare ogni cambiamento per timore delle sue conseguenze. In mezzo, c’è il difficile, ma fertile terreno della scelta consapevole.

La società di domani sarà quella in cui tecnologia e umanesimo coesisteranno, oppure non sarà affatto. Se vogliamo un futuro in cui l’uomo resti protagonista, dobbiamo coltivare non solo le competenze tecniche, ma anche quelle etiche, relazionali, culturali. È il pensiero critico che fa la differenza, è la capacità di dare senso alle innovazioni, di valutarne gli impatti, di immaginare gli scenari.

Siamo arrivati a un bivio: o accettiamo di diventare semplici ingranaggi in un meccanismo che ci sfugge, o decidiamo di essere il codice sorgente di una nuova alleanza tra umano e tecnologico.

Non siamo l’anello debole. Siamo l’anello mancante, quello che collega l’innovazione al senso.



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