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Dazi USA, la strategia di Trump: gettito fiscale o rilancio dell’industria?


A che gioco sta giocando Donald Trump? È davvero convinto di poter rilanciare l’industria americana soffocando le importazioni? Vuole solo fare cassa per coprire il mastodontico extra deficit creato dal “Big Beautiful Bill”? O sta solo alzando la posta per costringere l’Europa e altri Paesi a trattare in fretta, da posizioni di debolezza? Dall’esterno, la strategia delle lettere inviate negli ultimi giorni ai partner commerciali per minacciarli di maxi dazi fino al 50% (30% per la Ue) assomiglia più a un’escalation caotica che a un piano calibrato. Una miscela di nazionalismo economico, propaganda elettorale e Realpolitik fiscale che manda segnali contraddittori. A fare la differenza per l’esito finale potrebbe essere tra qualche settimana non la diplomazia, ma la reazione dei mercati. Se Wall Street reggerà il colpo, e soprattutto se il mercato obbligazionario non lancerà segnali d’allarme – come successo in aprile, con un aumento dei rendimenti causa fuga dai Treasury – allora il presidente potrà tirare dritto. Se invece il rischio di instabilità deflagrerà, potrebbe essere costretto a correggere ancora una volta il tiro.

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Gettito per finanziare l’extra-deficit – Il pacchetto di massicci tagli fiscali a favore dei più benestanti e aumento delle spese per la difesa battezzato Big Beautiful Bill, approvato dal Congresso e firmato da Trump il 4 luglio, crea un buco nei conti pubblici: secondo stime indipendenti del Congressional Budget Office e del Committee for a Responsible Federal Budget aumenterà il deficit federale di oltre 3mila miliardi nei prossimi dieci anni. Sollevando dubbi sulla sostenibilità del debito e spaventando gli investitori che finora avevano considerato i titoli di Stato Usa un porto sicuro. In questo contesto, i dazi diventano un modo per generare gettito extra a spese, a dire di Trump, dei partner commerciali. Anche se non è così: a pagare sono in realtà i consumatori americani. Già nei primi sei mesi dell’anno, nonostante la sospensione dei dazi reciproci annunciati in aprile, gli introiti da tariffe versate dagli importatori hanno raggiunto i 100 miliardi di dollari, un record. Il tycoon non sembra turbato dal fatto che la conseguenza sarà un aumento dei prezzi (anche) per i suoi elettori, visto che le imprese si accollano al massimo una piccola quota del sovrapprezzo e scaricano il resto su chi acquista.

Riequilibrio della bilancia commerciale – Dalla sua c’è il fatto che l’inatteso indebolimento del dollaro, determinato dal calo di fiducia nella valuta di riserva mondiale, determina un aumento della competitività delle merci statunitensi rispetto a quelle importate. Una pessima notizia per l’export europeo già penalizzato dai dazi di base e da quelli su acciaio, alluminio e auto. Una spinta, al contrario, per le esportazioni Usa. Una valuta più debole contribuisce al riequilibrio di una bilancia commerciale il cui deficit ossessiona il tycoon. Apparentemente inconsapevole del fatto che in economia il saldo delle partite correnti è, per definizione, la differenza tra risparmi e investimenti. Tradotto: gli Stati Uniti negli ultimi decenni hanno importato più di quanto esportavano non perché sono “fregati” da Europa o Cina, ma perché consumano e investono più di quanto risparmiano. E perché il loro mercato dei capitali – tra i più liquidi e profondi del mondo – ha sempre attirato investimenti dall’estero.

Reshoring e protezionismo industriale – L’assist all’export ci porta a uno degli obiettivi dichiarati dell’offensiva commerciale: un revival dell’industria manifatturiera negli Usa in nome del “Make America Great Again”. Anche in questa chiave raggiungere intese non sarebbe nell’interesse di Washington, che al contrario ha convenienza a far entrare in vigore i dazi sull’import per indurre le aziende straniere ad aprire fabbriche oltreoceano e quelle statunitensi a riportarle in patria (il cosiddetto reshoring). A dispetto della mancanza delle necessarie competenze, dopo anni di deindustrializzazione, e di un costo della manodopera ovviamente ben superiore a quelli dei Paesi in cui ora di concentra la produzione.

Alzare la posta per negoziare – Infine – in alternativa agli obiettivi precedenti – c’è la logica dell’”art of the deal“. Trump in aprile aveva garantito che gli Usa avrebbero concluso “90 accordi commerciali in 90 giorni”. La pesante reazione dei mercati obbligazionari l’aveva costretto a rinviare l’entrata in vigore dei dazi, ma il messaggio era: voglio trattare, alle mie condizioni perché vi tengo in pugno con la minaccia della guerra commerciale. Questi mesi di negoziati si sono però conclusi con solo tre accordi di massima con Gran Bretagna, Cina e Taiwan. Un risultato frustrante per l’inquilino della Casa Bianca. Le lettere inviate nei giorni scorsi, che in molti casi aumentano l’aliquota fantasiosamente calcolata ad aprile, potrebbero allora essere un bluff per ottenere atti di sottomissione e concessioni (su agricoltura, standard tecnici, indebolimento delle norme su Big tech) arrivando poi a un’intesa senza applicare davvero enormi tariffe che penalizzerebbero milioni di consumatori americani.

Il peso dei mercati obbligazionari – Difficile anche per gli analisti capire quale risultato stia più a cuore al tycoon. I mercati al momento sembrano valutare che sia una tattica di negoziazione. Ma, se si arriverà a inizio agosto senza accordi, una nuova impennata dei rendimenti dei Treasury – che già sono saliti di 25 punti base nell’ultimo anno per i decennali e 59 per i trentennali – mantenere in vigore la maxi tariffe potrebbe diventare controproducente. Finché Wall Street regge e i bond restano attrattivi, il presidente può permettersi la parte del negoziatore spavaldo. Ma se la fiducia si incrina, il margine di manovra si restringe rapidamente.

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