La demografia fa sì che in Italia ci siano tanti lavoratori over 50, che però non vengono adeguatamente valorizzati
Ma l’età è un problema o una risorsa? E l’esperienza? Troppo giovani, troppo vecchi… termini spesso ricorrenti nel mondo del lavoro. Nel mia professione mi capita spesso, nei colloqui di coaching o nelle aule di formazione, di incontrare persone brillanti con alle spalle venti, trent’anni di esperienza, che si trovano improvvisamente “fuori” (dal lavoro, dal sentirsi a bordo) o adeguati nel contesto aziendale. Non per mancanza di competenze, ma per età.
Lo studio “La sfida della Longevity” (Intoo e Wyser, Gi Group Holding) conferma queste sensazioni: il 62% dei manager ritiene che le aziende non siano ancora pronte a valorizzare appieno i colleghi over 50. E i lavoratori? Più di un terzo dice di non sentirsi ascoltato nei propri bisogni. Le iniziative dedicate, dove esistono, spesso si limitano al prepensionamento (lo dice il 50% dei manager), mentre solo un senior su cinque sa dell’esistenza di progetti a loro rivolti. E appena il 12% vi ha partecipato.
Qui il punto non è solo organizzativo, ma culturale. Il 69% dei lavoratori senior e il 78% dei manager riconoscono che l’età rappresenta ancora una forma di discriminazione. Otto manager su dieci ammettono apertamente che l’età anagrafica è un fattore penalizzante persino per le posizioni manageriali. Eppure basterebbe poco per cambiare approccio.
Henry Ford diceva: “Chiunque smetta di imparare è vecchio, a venti come a ottant’anni. Chi continua a imparare rimane giovane”. Un concetto semplice, ma rivoluzionario: la vera soglia non è nel calendario, ma nella voglia di restare aperti all’apprendimento.
C’è poi un pregiudizio duro a morire. Anche io, da recruiter, corro questo rischio: i senior e la tecnologia sarebbero incompatibili. In realtà, i numeri raccontano altro: sette over 50 su dieci vedono nella tecnologia una risorsa e il 76% chiede formazione per restare aggiornato. L’intelligenza artificiale non fa paura: il 69% dei manager e la metà dei lavoratori senior la considerano un’opportunità, non una minaccia.
Leo Buscaglia, scrittore italo-americano, diceva: “Il cambiamento è il risultato finale di ogni vero apprendimento”. Un’affermazione che si potrebbe benissimo incorniciare nella sala formazione di qualsiasi azienda.
Secondo l’Istat (Rapporto Annuale 2025), al 1° gennaio la popolazione italiana è scesa sotto i 59 milioni. L’età media? 46,8 anni. Fra vent’anni un italiano su tre avrà più di 65 anni. Il mercato del lavoro riflette questa situazione demografica: nel quarto trimestre 2024, l’occupazione nella fascia 50-64 anni è aumentata di 1,3 punti percentuali rispetto al trimestre precedente.
Il tema riguarda tutta Europa, ma alcuni Paesi sono già sulla strada giusta:
– La Germania con programmi di reverse mentoring, in cui giovani e senior si formano a vicenda sulle competenze digitali. Sono previsti anche incentivi alla formazione continua.
– Svezia e Paesi Nordici hanno modelli flessibili di orario e apprendimento permanente, sostenuti da accordi sindacali.
– In Francia sono previste agevolazioni fiscali per le imprese che investono nella formazione dei lavoratori maturi e nella trasmissione intergenerazionale delle competenze.
Tutto questo dove ci porta? Valorizzare i lavoratori senior non è una gentile concessione, ma una leva strategica, necessaria. I dati ci dicono che chiedono più formazione, più ascolto, più spazio. E che la tecnologia non li spaventa, anzi: li stimola.
Guardando ai modelli europei, diventa evidente che servono politiche aziendali capaci di attivare davvero l’esperienza, attraverso percorsi di carriera dedicati, dialogo tra generazioni e investimenti mirati. Solo così la demografia non sarà una minaccia, ma un’occasione e non possiamo farne a meno.
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