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Sondrio, il commercio perde pezzi: 140 negozi chiusi in quattro anni


In provincia il commercio al dettaglio vive una crisi profonda: dal 2020 hanno chiuso 140 attività, 81 nel solo capoluogo. A pesare sono l’aumento degli acquisti online, i cambiamenti nei consumi e un contesto economico instabile

Centoquaranta negozi in meno in provincia di Sondrio negli ultimi quattro anni, 81 dei quali nel solo capoluogo. Il commercio è in affanno e i dati parlano da soli: nel 2024, Sondrio ha visto abbassare definitivamente le serrande a 16 attività commerciali. Un’emorragia silenziosa ma costante, sintomo di una crisi strutturale del commercio al dettaglio, in particolare nei piccoli centri, dove le difficoltà si sommano a un mutato scenario di consumo e abitudini. Come quello degli acquisti online il cui peso in Valtellina è particolarmente sentito. «Un macigno», lo definisce Ramona Tarabini, presidente della categoria Tessili e Abbigliamento dell’Unione Commercio, titolare di due negozi a Sondrio e Morbegno.

Il commercio in presenza è sotto pressione, ma resta fondamentale per la tenuta sociale delle comunità. A fotografare la situazione è anche il dossier dell’Ufficio Territoriale Regionale (Utr) di Sondrio, che fornisce un quadro dettagliato della provincia. Al termine dello scorso anno, Sondrio risultava la provincia lombarda con il maggior calo di fatturato nel settore commerciale (-1,1%), seconda solo a Monza e Brianza (-0,5%). Peggio ancora per il dettaglio: -2,4% con ordini ai fornitori in netto calo (-15%).

Qualche segnale incoraggiante arriva dai numeri del primo trimestre 2025. Il calo del fatturato si è quasi azzerato (-0,2%) e gli ordini hanno recuperato terreno, con il saldo tra chi segnala aumenti e chi diminuzioni sceso al -3,1%. In lieve crescita anche l’occupazione nel comparto: +1,6% il saldo provinciale. Un dato che apre uno spiraglio di fiducia.

Analizzando i sottosettori, l’Utr segnala andamenti positivi per il commercio non specializzato (+2,7% nel 2024), seguito dall’alimentare specializzato (+2,3%) e dal non alimentare (+2,1%). Tuttavia, anche i prezzi sono cresciuti: +5,1% per il non specializzato, +3,5% per l’alimentare. L’occupazione cresce nel non alimentare e nel non specializzato, mentre resta negativa nell’alimentare.

Il commercio resta un presidio sociale oltre che economico. Lo ha ribadito anche il recente Consiglio generale dell’Unione Commercio: «È un servizio a chilometro zero, tiene vivi i paesi e promuove i prodotti del territorio».

Il contesto nazionale e internazionale non aiuta. Il rapporto Confcommercio-Censis 2025 sul clima di fiducia delle famiglie fotografa un’Italia stabile, con occupazione ai massimi storici e inflazione sotto controllo, ma con consumatori prudenti. Il 43% delle famiglie ha aumentato i consumi, ma tagliando sul risparmio. Le spese obbligate (bollette, mutui, tasse) rappresentano il principale freno ai consumi per oltre la metà degli italiani. Solo il 9,7% prevede un aumento del proprio reddito nella seconda metà dell’anno.

E se da un lato crescono le intenzioni di spesa per elettrodomestici (+10,9%) e tecnologia (+9,1%), resta forte la percezione di incertezza: solo il 25% degli italiani è ottimista sul futuro del Paese. Un dato che condiziona anche le scelte d’acquisto quotidiane. Il saldo tra ottimisti e pessimisti è positivo ma in discesa: 10,8 punti nel 2025 contro i 27,5 del 2023. Le principali fonti di preoccupazione sono malattia (49,2%) e mancanza di risorse economiche (47,2%).

In provincia, la sfida del commercio è oggi più che mai quella di tenere il passo con i cambiamenti, digitali e culturali, senza rinunciare alla propria identità. Per farlo, servono però visione e soprattutto politiche mirate e il sostegno concreto alle micro e piccole imprese che continuano a resistere sul territorio.

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