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Gli Stati Uniti lasciano l’Unesco. È la terza volta


Per la seconda volta in meno di un decennio, e per la terza nel dopoguerra, gli Stati Uniti hanno deciso di lasciare l’Unesco. L’annuncio, formalizzato il 22 luglio con un comunicato del Dipartimento di Stato, fa seguito al ritiro degli Stati Uniti da altre organizzazioni delle Nazioni Unite, come l’Organizzazione Mondiale della Sanità o il Consiglio per i Diritti Umani, o da trattati e programmi internazionali come l’Accordo di Parigi sul Clima, o gli stessi Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite. 

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Fin dalla sua elezione, il presidente statunitense Donald  Trump non ha smesso di criticare il sistema multilaterale istituito nel secondo dopoguerra come estraneo agli interessi americani, esprimendo il suo profondo disprezzo per i principi di equità, diversità, inclusione promossi negli ultimi decenni da tutte le organizzazioni delle Nazioni Unite. 

Il ritiro dall’Unesco non è che il più recente, e certo non l’ultimo, degli attacchi di Trump ai principi che hanno retto i rapporti internazionali negli ultimi ottant’anni, un gesto politico che, come è stato nelle occasioni precedenti, non potrà non avere impatti sulla vita e sul ruolo dell’Organizzazione mondiale per l’educazione, la scienza e la cultura.

La prima uscita degli Stati Uniti dall’Unesco avvenne nel 1984, durante l’ultima fase della Guerra Fredda, sotto l’amministrazione Reagan, quando l’Unesco era vista dagli americani come filosovietica e dominata da un registro ideologico antioccidentale. All’epoca, anche il Regno Unito e Singapore uscirono dall’organizzazione, per poi farvi ritorno nel 1997 e nel 2007. 

La seconda uscita degli Stati Uniti venne formalizzata nel 2017, all’inizio della prima presidenza di Donald Trump, anche se gli Stati Uniti avevano interrotto i finanziamenti all’Unesco nel 2011, sotto la presidenza di Barack Obama, quando la Palestina venne ammessa all’Unesco formalmente come Stato membro. 

Negli anni tra il 2011 e il 2017, gli Stati Uniti rimasero nell’Unesco senza pagare le quote annuali, ma continuarono a essere membri del Consiglio Esecutivo e a svolgere un ruolo attivo nella politica dell’organizzazione. Quando nel 2017 la lasciarono formalmente, avevano accumulato un debito di oltre 600 milioni di dollari, debito che ad oggi non è mai stato pagato, e forse non lo sarà più.  

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Le critiche ufficiali formulate per giustificare l’uscita dall’Unesco all’epoca riguardarono principalmente un presunto pregiudizio anti israeliano e il riconoscimento della Palestina come Stato membro. Anche Israele si ritirò dall’Unesco in quella occasione, senza mai più rientrare

Nel 2023, sotto la presidenza di Joe Biden, gli Stati Uniti fecero ritorno nell’Unesco, con il sostegno della maggioranza democratica al Congresso, e ristabilirono normali relazioni, rientrando anche nel Consiglio Esecutivo. Ma con l’arrivo di Donald Trump alla presidenza nel gennaio 2025 la situazione è rapidamente mutata. Trump ha istituito una commissione per verificare l’aderenza dell’azione dell’Unesco agli «interessi americani», mentre la rappresentanza americana negli organi statutari ha avviato una azione di sistematica opposizione e boicottaggio a tutte le decisioni relative a temi invisi all’amministrazione americana, dall’eguaglianza di genere fino alla lotta contro il razzismo e alla promozione della storia della schiavitù, dai diritti delle persone Lgbtq fino al sostegno alla causa palestinese. 

La decisione di uscire per la terza volta dall’Unesco non fa che formalizzare l’ostilità di questa amministrazione americana per il multilateralismo culturale e per la cooperazione internazionale, nel nome di una visione «America First». Quali saranno le conseguenze di questa decisione per il futuro dell’Unesco? Certamente la decisione non arriva inaspettata, e quindi l’Unesco aveva cominciato a prepararsi, limitando molte spese e cercando di compensare con fondi extrabilancio una prevedibile crisi finanziaria che potrebbe arrivare anche prima dell’uscita formale degli Stati Uniti che avverrà solo il 31 dicembre 2026, come richiesto dalle regole della Costituzione.  

Gli Usa infatti non hanno ancora pagato la quota di contributi del 2025 e probabilmente non pagheranno né questa né quella del 2026. Gli Stati Uniti sono il principale contribuente del bilancio ordinario, con una quota del 22%, come del resto nella maggior parte degli organismi dell’Onu, e in un bilancio ordinario pari a circa 600 milioni di dollari al biennio, l’assenza di questi contributi si farà sentire. 

I fondi extrabilancio dell’Unesco sono importanti e corrispondono a circa 1,4 miliardi di dollari per il biennio in corso, ma sono quasi tutti vincolati a progetti specifici e non possono essere trasferiti da una posta di bilancio a un’altra. Ma al di là di questi aspetti finanziari, peraltro importanti, l’uscita degli Stati Uniti pone in crisi il modello universalistico su cui si basa l’azione dell’Unesco. L’assenza di uno dei principali Paesi del mondo non può non avere un impatto sull’azione di una organizzazione che lavora nel campo dell’educazione, della scienza e della cultura. 

Non dimentichiamo che gli Stati Uniti sono stati tra i principali fondatori dell’Unesco, creata a seguito della Conferenza di San Francisco (aprile-giugno 1945) durante la quale venne approvata la Carta delle Nazioni Unite e durante la quale diversi delegati, in particolare da Francia, Regno Unito e Cina, sottolinearono l’urgenza di creare un organismo specializzato per l’educazione, la scienza e la cultura. Creata ufficialmente a Londra nel novembre 1945, l’Unesco divenne il simbolo della ricerca della pace attraverso l’educazione e la cultura, come scritto nella sua Costituzione: «Poiché le guerre nascono nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che devono essere costruite le difese della pace». 

Gli Stati Uniti parteciparono attivamente alla creazione e sviluppo dell’Unesco, esprimendo anche due direttori generali: Luther Evans (1953-58) e James Hester (1974-78). Molti dei programmi dell’organizzazione furono avviati per iniziativa degli Stati Uniti, dalla Commissione Oceanografica Internazionale creata nel 1960 fino alla Convenzione del Patrimonio Mondiale del 1972. Sul piano dell’educazione, fu l’amministrazione Bush a sostenere il lancio del grande programma di alfabetizzazione promosso dall’Unesco, senza dimenticare il programma di educazione all’Olocausto avviato nel 2005.  

Anche negli anni in cui sono stati fuori dall’Unesco, gli Stati Uniti sono rimasti attivi nei principali trattati gestiti dall’organizzazione, come la Convenzione del Patrimonio Mondiale, continuando a iscrivere siti nella Lista del Patrimonio, come ad esempio nel 2019 con l’inclusione di un gruppo di otto edifici progettati da Frank Lloyd Wright, oppure con l’iscrizione nel 2023 del sito di Hopewell Ceremonial Earthworks, che comprende una serie di strutture in terra costruite dai popoli Hopewell tra il 100 a.C. e il 500 d.C., situate principalmente nell’Ohio. 

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Anche quando usciranno dall’Unesco gli Stati Uniti continueranno quindi a partecipare all’attività della Convenzione del Patrimonio e delle altre Convenzioni che hanno ratificato, come la Convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione del patrimonio culturale in caso di conflitto, ma non è sicuro che contribuiranno al loro funzionamento. 

La decisione dell’amministrazione Trump conferma purtroppo che il sistema multilaterale che ha retto gli equilibri internazionali negli ultimi ottant’anni è entrato oggi in una grave crisi che richiede una profonda riflessione e una reazione da parte di tutti i soggetti istituzionali e privati che continuano a ritenere che educazione, scienza e cultura debbano continuare a rappresentare una luce di speranza in un’epoca che si preannuncia  incerta e buia. 



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