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la Consulta abbatte il tetto dei sei mesi all’indennizzo



Bocciato dalla Consulta il limite massimo previsto per i risarcimenti in caso di licenziamenti illegittimi nelle micro e piccole imprese, cassato il tetteo dei sei mesi all’indennizzo: “Viola la dignità del lavoratore e i principi di uguaglianza“.


La Corte costituzionale ha cancellato una delle norme più discusse del Jobs Act sul fronte dei licenziamenti. Con la sentenza n. 118 del 2025, depositata il 22 luglio, la Consulta ha dichiarato incostituzionale il tetto massimo di sei mensilità previsto per le indennità da corrispondere ai lavoratori licenziati ingiustamente da datori di lavoro con organici ridotti. Secondo i giudici, tale limite compromette il diritto a una riparazione adeguata e non consente al giudice di valutare pienamente la gravità dell’illegittimità del recesso.

Va ricordato, per dovere di cronaca, che si trattava di uno dei quesiti referendari dello scorso giugno.

Il riferimento è all’articolo 9, comma 1, del decreto legislativo 23/2015, che stabiliva un massimo risarcitorio per i licenziamenti dichiarati illegittimi da parte di imprese con meno di 15 dipendenti per sede o 60 in totale. Una misura che, nelle intenzioni del legislatore, avrebbe dovuto tutelare i datori di lavoro più piccoli da oneri eccessivi. Tuttavia, per la Corte, si traduce in una tutela troppo rigida, forfettaria e non proporzionata, che finisce per penalizzare lavoratori in situazioni anche molto gravi.

Una soglia troppo bassa per garantire giustizia

Il caso è stato sollevato dal Tribunale di Livorno, che ha messo in dubbio la conformità costituzionale della norma, ritenendola lesiva di vari principi fondamentali, tra cui l’articolo 3 della Costituzione (uguaglianza davanti alla legge), l’articolo 35 (tutela del lavoro), l’articolo 41 (libertà di impresa) e l’articolo 117, in riferimento alla Carta Sociale Europea, che impone un indennizzo congruo in caso di licenziamento privo di giustificazione.

La Consulta ha condiviso queste preoccupazioni, sottolineando come il tetto delle sei mensilità — già frutto di un dimezzamento rispetto a quanto previsto per le aziende con organico più ampio — produca un risarcimento standardizzato, incapace di riflettere la diversità delle situazioni individuali. In questo modo, si nega al giudice la possibilità di adattare l’indennizzo alla reale entità del danno, alla condotta del datore, alla durata del rapporto di lavoro e ad altri elementi centrali.

Non basta il numero dei dipendenti

Un altro punto cruciale evidenziato dalla Corte riguarda la base su cui viene calcolato il risarcimento: il numero di lavoratori impiegati. Questo criterio, osservano i giudici, non può essere considerato l’unico indicatore della capacità economica dell’impresa. In un’economia sempre più diversificata, il numero degli addetti non è più sufficiente a misurare la forza finanziaria di un’azienda, che può disporre di capitali ingenti e generare ricavi significativi pur impiegando poche persone.

La Consulta invita dunque il legislatore a riformare la disciplina, introducendo parametri più articolati, come già avviene in ambito europeo. Fatturato e volume di bilancio, ad esempio, sono già utilizzati in altri settori per classificare le dimensioni aziendali in maniera più coerente con la realtà economica.

Una sentenza che chiama alla riforma

La decisione si colloca nel solco di un orientamento ormai consolidato della Corte, che negli ultimi anni ha più volte richiamato l’esigenza di assicurare ai lavoratori un sistema di tutele davvero effettivo. Già nel 2022, nella sentenza n. 183, i giudici avevano segnalato le criticità di un sistema che fissa indennizzi troppo bassi per chi lavora in aziende sotto soglia, avvertendo che un ulteriore ritardo del legislatore avrebbe portato a un intervento diretto della Corte. Ora, quel momento è arrivato.

Importante notare che la Corte non ha messo in discussione la legittimità di una tutela monetaria al posto della reintegrazione — soluzione ritenuta comunque compatibile con la Costituzione. Ciò che viene rifiutato è la fissazione di una cifra massima rigida, che impedisca una valutazione concreta del caso da parte del giudice. Il sistema, spiegano i giudici, deve mantenere un margine di flessibilità sufficiente a riflettere la complessità dei rapporti di lavoro, anche nelle imprese più piccole.

Le conseguenze per datori e lavoratori

La sentenza apre ora uno scenario in cui i giudici potranno determinare l’indennizzo sulla base dei criteri ordinari, senza il vincolo delle sei mensilità. Resta in vigore il dimezzamento degli importi previsti per le grandi aziende, ma all’interno di una forbice più ampia, che consente comunque di modulare la sanzione in modo proporzionato.

Si tratta di una svolta significativa, destinata ad avere un impatto su un’ampia platea di lavoratori: secondo l’ISTAT, la quasi totalità delle imprese italiane rientra nella categoria dei “sottosoglia”, ossia al di sotto dei 15 dipendenti per sede. Dunque, la pronuncia tocca una parte molto estesa del tessuto produttivo nazionale.

La Corte ha infine rinnovato l’appello al Parlamento affinché intervenga con una riforma organica della materia, superando l’attuale assetto normativo stratificato e poco coerente. L’obiettivo è un sistema di tutele più giusto, capace di difendere i lavoratori anche nelle realtà più fragili senza gravare eccessivamente sulle piccole imprese. Una sfida difficile, ma ormai non più rinviabile.

Consulta abbatte il tetto dei sei mesi all’indennizzo sui licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese: la sentenza

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