Il 26 luglio 1975 entrava in vigore la legge n. 354 sull’Ordinamento Penitenziario. L’articolo 15 di quella legge fu, all’epoca, un passaggio di rottura: “Il lavoro è uno degli elementi del trattamento rieducativo” e “salvo casi di impossibilità, ai condannati è assicurato il lavoro”. La norma si fondava sull’articolo 27 della Costituzione e imponeva una visione radicalmente diversa della detenzione: non più solo pena, ma percorso. Cinquant’anni dopo, il bilancio è una cronaca continuata di omissioni, distorsioni, fallimenti strutturali.
Una legge chiara, sistematicamente disapplicata
La formulazione dell’art. 15 non lascia spazio ad ambiguità. Il lavoro deve essere rieducativo, non afflittivo, retribuito almeno per due terzi del corrispettivo previsto dai contratti collettivi, dotato delle stesse tutele assicurative e previdenziali del lavoro libero. Eppure, oggi come ieri, questi principi restano largamente disattesi. I dati più aggiornati (DAP 2024) dicono che solo il 34,3% dei 61.861 detenuti svolge un’attività lavorativa. Di questi, l’85% è impiegato in mansioni interne – pulizia, cucina, manutenzione – offerte direttamente dall’amministrazione penitenziaria, con compensi che si aggirano intorno ai 150 euro al mese. Niente minimi contrattuali. Niente tutele effettive.
E fuori? Appena il 3,3% lavora con soggetti esterni. I progetti qualificati con cooperative e aziende sono l’eccezione virtuosa, non la regola. E non bastano a ribaltare il quadro: una legge che dovrebbe essere norma universale si è ridotta a privilegio territoriale e selettivo.
Il paradosso penitenziario: più carceri, meno lavoro
Il fallimento dell’articolo 15 è anche il prodotto di precise scelte politiche. Il sovraffollamento strutturale – 62.400 presenze su 50.000 posti regolamentari nel 2025 – rende impraticabile qualsiasi progettualità. Gli spazi sono inadeguati, il personale educativo insufficiente, le figure specializzate assenti. L’emergenza continua ha divorato la progettazione: si investe in nuove celle, non in nuove possibilità. Il cosiddetto “Piano Sfolla Carceri”, varato dal governo Meloni, prevede 10.000 nuovi posti detentivi entro il 2027. Nessuna misura analoga per il lavoro.
In parallelo, si riducono i fondi per gli sgravi fiscali previsti dalla legge Smuraglia, che dovrebbe incentivare le imprese ad assumere detenuti. Il credito d’imposta è sceso da 21 a 19 milioni di euro, segnale plastico di una disattenzione che è, ormai, disinvestimento strutturale.
Il lavoro che rieduca esiste. Ma solo per pochi
Le esperienze positive non mancano: Bollate, Rieti, le cooperative sociali che operano dentro e fuori le mura, i progetti in collaborazione con le università e con il mondo produttivo. Ma i numeri sono minimi. E il sistema è talmente fragile che basta un cambio di direzione, un taglio di fondi o una circolare restrittiva a smontare anni di lavoro.
Eppure, la letteratura scientifica è inequivocabile. Uno studio del CNEL mostra che il tasso di recidiva si riduce al 2-10% nei casi in cui il detenuto è coinvolto in un percorso lavorativo qualificato, contro il 60-68% del carcere tradizionale. Ogni euro investito nel lavoro produce un risparmio di 4,80 euro in costi giudiziari, detentivi e sociali. È la più efficace politica di sicurezza che abbiamo – eppure è trattata come opzionale.
La clausola “salvo casi di impossibilità”, concepita per casi eccezionali, è diventata la normalità giustificativa. La carenza di fondi, di spazi, di progettazione è stata elevata a fatto ineluttabile. E così il diritto al lavoro è stato degradato a concessione: discrezionale, episodica, geograficamente diseguale. Chi entra in carcere, oggi, non ha davanti un percorso. Ha davanti un contenitore.
Le riforme legislative si sono succedute – dalla legge Gozzini alla Smuraglia fino ai decreti del 2018 – ma senza un investimento strutturale, il mosaico normativo ha prodotto solo frammenti e disillusioni. Nessun piano nazionale per il lavoro penitenziario, nessun dipartimento dedicato, nessun monitoraggio pubblico dell’attuazione dell’art. 15.
Il punto politico
La cultura punitiva ha progressivamente svuotato la visione costituzionale. L’art. 27 parla di pena come rieducazione. L’attuale narrazione politica parla di pena come neutralizzazione. Ogni proposta di rafforzamento del lavoro in carcere è oggi vista con sospetto, come debolezza. Il caso del femminicidio di Milano (maggio 2025) è stato usato per invocare lo smantellamento delle misure alternative. È il riflesso di un populismo penale che sacrifica i diritti sull’altare della paura.
Cinquant’anni dopo, l’articolo 15 resta una promessa. Lavoro in carcere non è gentilezza, non è premio, non è clemenza. È diritto, è strategia di sicurezza pubblica, è dignità. Ma finché la politica non lo tratterà come tale, sarà solo una formula vuota incisa nella legge. Un anniversario da archiviare, non da celebrare.
La vera commemorazione sarà il giorno in cui, in ogni carcere d’Italia, il lavoro sarà garantito come il pane. Fino ad allora, non si tratta di ricordare una riforma, ma di contare ogni giorno i suoi morti, i suoi suicidi, i suoi recidivi, il suo fallimento.
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