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Prestiti alle imprese, la difficile “disintossicazione” dalle garanzie di Stato


Il Governo studia una stretta sulle garanzie pubbliche per i prestiti alle PMI, per ridurre la dipendenza delle banche e i costi per lo Stato. Ma il rischio, in un’economia fragile e con nuove regole sul capitale, è quello di innescare un pericoloso “credit crunch” che potrebbe soffocare le piccole imprese.

È l’eredità più pesante e complessa della pandemia: un sistema economico e bancario italiano diventato “dipendente” dalla massiccia iniezione di garanzie pubbliche sui prestiti. Quella che fu una misura di emergenza indispensabile per salvare migliaia di piccole e medie imprese (PMI) dal collasso, si è trasformata in una stampella strutturale da cui oggi è difficilissimo staccarsi. Ora il Governo, con il Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti in testa, sta pianificando una lenta e dolorosa “disintossicazione“. Sul tavolo, in vista della prossima manovra finanziaria, ci sono una proroga con restrizioni del Fondo di Garanzia per le PMI e, soprattutto, l’introduzione di una nuova “penale” per le banche che ne fanno un uso eccessivo. L’obiettivo è nobile: ridurre il rischio per le casse dello Stato e spingere le banche a tornare a fare il loro mestiere, prestando soldi sulla base del proprio rischio. Ma la cura rischia di essere peggiore del male. In un contesto di economia stagnante e di nuove, rigide regole sul capitale bancario, questo tentativo di “svezzamento” forzato rischia di provocare un effetto collaterale devastante: un “credit crunch”, una stretta del credito che potrebbe soffocare proprio quel tessuto di piccole imprese che si vorrebbe rendere più forte.

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L’eredità del Covid, un’economia ‘dipendente’ dalla garanzia pubblica

Per capire la delicatezza della situazione, bastano i numeri. Durante la fase pandemica, lo Stato, attraverso il Fondo di Garanzia, ha coperto prestiti alle imprese per oltre 250 miliardi di euro. Una cifra colossale che ha permesso al sistema di non implodere. Oggi, sebbene lo stock si sia ridotto ai 165 miliardi di finanziamenti ancora in essere, la dipendenza rimane altissima. Per le piccole imprese, circa il 60% del totale dei finanziamenti bancari è ancora assistito da una garanzia pubblica. Questo dato rivela una verità scomoda: una parte significativa del nostro sistema produttivo non è (o non è ritenuta dalle banche) in grado di stare sul mercato senza il paracadute dello Stato. Togliere questo supporto in modo troppo brusco non è un’opzione, a meno di non voler deliberatamente innescare una crisi.

Il ‘rischio morale’, perché i prestiti garantiti si deteriorano di più (e chi paga)

La spinta del Governo e della Banca d’Italia a ridurre il ricorso alle garanzie non è solo una questione di conti pubblici, ma nasce da un problema noto in economia come “azzardo morale” (moral hazard). Come ha evidenziato Bankitalia, il tasso di deterioramento dei prestiti garantiti (circa il 4%) è superiore a quello dei finanziamenti non coperti.

Perché? La ragione è semplice: quando una banca presta denaro sapendo che, in caso di insolvenza del debitore, l’80% della perdita sarà coperta dallo Stato, il suo incentivo a effettuare una valutazione del credito rigorosa e prudente diminuisce. Si è più inclini a concedere prestiti a soggetti più rischiosi, perché gran parte del rischio è stato socializzato, ovvero trasferito sulle spalle dei contribuenti. Questo “rischio morale” ha già prodotto un conto salato: ad oggi, le garanzie escusse (cioè i crediti che lo Stato ha dovuto rimborsare alle banche per le insolvenze delle imprese) ammontano a circa 5 miliardi di euro.

La ‘penale’ per le banche, una cura che rischia di uccidere il paziente?

Per combattere questo azzardo morale, il Governo sta per attuare una nuova norma che introduce una sorta di “penale” o “premio” a carico degli istituti di credito che utilizzano le garanzie pubbliche oltre una certa soglia. L’idea è di disincentivare l’abuso dello strumento, spingendo le banche a fare un uso più oculato della copertura statale.

Ma questa soluzione, apparentemente logica, nasconde un’enorme controindicazione. Cosa farà una banca di fronte a questa nuova “tassa” sulla garanzia? Le opzioni sono tre, e nessuna è positiva per le PMI:

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  1. assorbirà il costo: altamente improbabile, ridurrebbe i suoi margini di profitto;
  2. trasferirà il costo sul cliente: aumenterà i tassi di interesse o le spese sui prestiti garantiti, rendendoli più onerosi per le imprese;
  3. eviterà il costo: per non superare la soglia e non pagare la penale, la banca semplicemente smetterà di erogare prestiti alle categorie di imprese più rischiose, ovvero le piccole e medie imprese, che sono proprio quelle per cui il Fondo è stato creato.

Il rischio più concreto è quindi il terzo: una misura pensata per rendere i prestiti “migliori” potrebbe tradursi in “meno prestiti” per tutti.

La tempesta perfetta per le pmi, meno garanzie e banche più rigide

Questa potenziale stretta si inserisce in un contesto già molto difficile per l’accesso al credito delle piccole imprese. Si sta delineando una “tempesta perfetta”.

Da un lato, lo Stato che vuole ridurre le garanzie pubbliche.

Dall’altro, un sistema bancario che, per ragioni indipendenti, sta diventando sempre più rigido. Sono infatti entrate a pieno regime nuove e più severe regole europee sul capitale delle banche (come la riserva di capitale a fronte del rischio sistemico – SyRB, e Basilea 3+). Queste norme obbligano le banche a mettere da parte più capitale a fronte dei prestiti concessi, rendendo l’attività di finanziamento, specialmente verso le PMI considerate più rischiose, meno profittevole e più costosa.

La combinazione di queste dinamiche – meno supporto pubblico e più vincoli privati – crea un mix esplosivo che potrebbe portare a un drastico prosciugamento dei canali di finanziamento per il cuore del sistema produttivo italiano.

La ‘patata bollente’ della responsabilità, il caso delle frodi e delle infiltrazioni

A complicare il quadro c’è anche il tema della legalità. Sono emersi casi di finanziamenti garantiti dallo Stato finiti a società che potrebbero essere legate alla criminalità organizzata. Su questo punto, il gestore del Fondo (MCC) è stato categorico: la responsabilità non è del Fondo, ma delle banche.

Il Fondo, infatti, non ha un rapporto diretto con l’impresa che riceve il prestito, ma solo con l’intermediario finanziario. Sono le banche ad avere il dovere, previsto dalla legge, di effettuare tutte le verifiche preliminari sul cliente, incluse quelle antiriciclaggio. Il Fondo si limita a controlli documentali a campione. Questo scarico di responsabilità evidenzia un’altra debolezza strutturale del sistema: lo Stato garantisce, ma non ha il controllo diretto e capillare su chi riceve il beneficio finale di quella garanzia.

Conclusione, una coperta troppo corta e la difficile scelta del governo

Il Governo si trova di fronte al classico problema della “coperta corta”. Se la tira per coprire i conti pubblici e ridurre i rischi di bilancio (tagliando le garanzie e penalizzando le banche), lascia scoperta l’economia reale, che rischia il congelamento del credito. Se la tira per coprire le imprese e sostenere la crescita (mantenendo le garanzie generose), espone le finanze dello Stato a un rischio morale e a costi potenzialmente crescenti.

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La strada che si sta delineando, un mix di proroga con restrizioni e di nuovi disincentivi, è un tentativo di trovare un equilibrio quasi impossibile. È una navigazione a vista in un mare agitato da rischi economici e da nuove rigidità normative. La “disintossicazione” dalle garanzie pubbliche è un obiettivo necessario, ma avviare una cura da cavallo su un paziente ancora debole è una scommessa che potrebbe avere conseguenze molto gravi per la salute dell’intera economia italiana.



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