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Se si uccide l’auto europea muore anche l’innovazione


C’è un rumore che nei palazzi delle istituzioni europee spesso non si sente, ma che ogni giorno rimbomba nelle fabbriche, nei capannoni, nelle famiglie di chi lavora nel settore dell’auto. È il rumore delle linee di produzione che rallentano, degli ordini che calano, dei progetti che si fermano. È il rumore – sempre più vicino – della chiusura di imprese, della perdita di competenze, del rischio concreto di spegnere uno dei motori industriali più importanti del nostro continente.

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Il settore automobilistico europeo vive una delle crisi più profonde della sua storia. Non si tratta di una crisi congiunturale, ma di una trasformazione strutturale che mette in discussione modelli produttivi, equilibri economici, scelte politiche. Negli ultimi cinque anni, l’Europa ha perso un quarto della sua quota di mercato globale nell’automotive. I produttori asiatici – in particolare cinesi – stanno guadagnando terreno in modo aggressivo, forti di una strategia industriale nazionale e di costi energetici drasticamente inferiori rispetto ai nostri.

Il punto è semplice: se si uccide l’automotive europeo, muore anche l’innovazione. Il settore auto non è solo produzione e occupazione – peraltro con oltre 2,6 milioni di lavoratori diretti e quasi 13 milioni nell’indotto – ma è anche il primo motore privato di investimenti in ricerca e sviluppo.

Un ruolo cruciale in questa filiera lo gioca la componentistica, settore spesso invisibile ma fondamentale. In Europa operano oltre 3mila aziende della componentistica

automobilistica, che generano circa 600 miliardi di euro di fatturato annuo e occupano oltre 1,7 milioni di persone. In Italia, il comparto rappresenta più dell’80% del valore di un veicolo prodotto, con oltre 2.200 imprese attive e un export che vale più di 25 miliardi di euro l’anno. Parliamo di un tessuto industriale fatto in gran parte da Pmi, anche artigiane, ad alta specializzazione, capaci di innovare, esportare e generare know-how tecnico che rende competitive le grandi case automobilistiche.

Spegnere questa filiera significa disinnescare l’intero sistema industriale e ridurre l’Europa a semplice mercato di consumo, sempre più dipendente da tecnologie altrui.

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La transizione energetica è giusta e necessaria, ma oggi rischia di essere condotta con un approccio ideologico che esclude opzioni tecnologicamente mature e sostenibili come l’ibrido o i biocarburanti. Una politica industriale intelligente deve basarsi sulla neutralità tecnologica, non sull’imposizione di un’unica soluzione. L’elettrico non può essere l’unica via percorribile, perché non è ancora alla portata di tutti e mette in difficoltà le imprese della componentistica tradizionale, molte delle quali rischiano di non sopravvivere alla riconversione forzata.

Occorre ascoltare i cittadini. La sostenibilità non può diventare un privilegio per pochi e un peso per molti. Le famiglie faticano ad arrivare a fine mese, e il parco auto europeo – vecchio, inquinante e costoso da sostituire – non si rinnova perché i prezzi salgono e i salari restano fermi. Un tempo, l’Europa offriva decine di modelli accessibili sotto i 15mila euro; oggi ne resta appena uno. Serve una svolta.

Per rilanciare davvero il comparto servono: un piano europeo per il ricambio

del parco auto, con incentivi robusti per l’acquisto di vetture a basse emissioni, anche non elettriche e non necessariamente nuove; una politica energetica comune, che riduca il divario dei costi industriali tra i Paesi membri – perché per esempio oggi in Italia l’energia costa più del doppio rispetto alla Francia; investimenti per la riconversione produttiva, la formazione e la riqualificazione professionale dei lavoratori; una strategia per rafforzare la produzione locale e valorizzare i marchi storici europei, sostenendo ricerca, innovazione e qualità, soprattutto nel comparto della componentistica, che oggi rischia di essere il primo sacrificato nel passaggio all’elettrico.

L’Europa ha bisogno di una politica industriale coraggiosa, lucida, libera da pressioni ideologiche. Serve una visione di lungo periodo che metta al centro il lavoro, la competitività, la dignità delle persone. E serve rispetto per un settore che ha costruito per decenni progresso, benessere, mobilità sociale.

Non possiamo permettere che l’industria dell’auto venga sacrificata nel nome di una transizione a senso unico. Possiamo vincere la sfida della sostenibilità solo se sapremo costruirla con e non contro chi ogni giorno lavora, innova, produce.

Noi ci siamo.

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E non smetteremo di lottare per un’Europa che costruisce, che produce, che difende il lavoro e che sa coniugare crescita, ambiente e giustizia sociale.

*eurodeputata PPE e Presidente della Consulta nazionale di Forza Italia, **Presidente Esecutivo Gruppo Brembo



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