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Licenziamenti nelle piccole imprese, bocciato il tetto ai risarcimenti


In questi anni la materia dei licenziamenti ha dato spazio a un ampio contenzioso presso il giudice del lavoro. E se frequentemente nel mirino della magistratura sono finite le violazioni delle aziende, questa volta, con la sentenza n. 118 della Corte Costituzionale, è la stessa legge a cadere sotto la scure della Consulta. In caso di accertato licenziamento illegittimo nelle piccole imprese, l’indennità risarcitoria per gli assunti dal 7 marzo 2015 non può più essere stabilita secondo il restrittivo criterio delle sei mensilità di stipendio.

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Il tetto vìola i principi di non discriminazione e, alla Corte, non appare affatto aderente a quella logica “ristorativa” che dovrebbe tutelare economicamente il lavoratore ingiustamente espulso dall’azienda.

A ben vedere, il risultato che non era stato raggiunto con uno dei referendum sul lavoro di giugno — l’abrogazione del limite all’indennizzo nelle aziende con meno di 16 dipendenti — è ora realtà, in seguito alla decisione della Consulta.

Ma, oltre alle pur importantissime considerazioni giuridiche, alcune domande pratiche sorgono spontanee: che cosa cambia in concreto per i dipendenti? E quali differenze ci sono ora rispetto alla situazione precedente? Proviamo a capirlo insieme, ponendoci dal punto di vista del lavoratore.

Quale regola è stata dichiarata incostituzionale

È interessante notare subito che la sentenza n. 118 è stata accolta positivamente dai sindacati. La Cgil ha spiegato che quanto stabilito dai giudici costituzionali rappresenta, in sostanza, il a uno dei quattro referendum sul lavoro di giugno (il quinto riguardava la cittadinanza), relativo ai licenziamenti nelle piccole imprese.

In un’opera di progressivo smontaggio del Jobs Act, negli anni la Consulta ha chiarito che alcune sue norme sono lesive dei principi di uguaglianza, tutela del lavoro e proporzionalità sanciti dalla Costituzione.

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La Corte ha dunque giudicato incostituzionale la rigidità del sistema risarcitorio e l’automatismo nel calcolo delle indennità, riaffermando la necessità di una valutazione caso per caso per garantire una tutela effettiva ai lavoratori.

Con riferimento ai licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese, la Consulta ha attaccato l’art. 9, comma 1, del D.lgs. 23/2015, recante disposizioni sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.

La norma è stata dichiarata contraria ai principi costituzionali nella parte in cui stabilisce che, in caso di licenziamento illegittimo inflitto da una cosiddetta piccola impresa, l’importo massimo dell’indennità risarcitoria non possa superare le 6 mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del Tfr, per ogni anno di servizio.

Perché il ristoro di 6 mesi non è costituzionale

In estrema sintesi, per il lavoratore (e per i sindacati) questa sentenza rappresenta una vittoria legale non di poco conto.

Quando la Corte dichiara una norma incostituzionale, infatti, quella norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza in Gazzetta Ufficiale.

Da quel momento non può più essere applicata dai giudici, nemmeno nei procedimenti in corso, e si considera sostanzialmente come mai esistita.

Secondo la Consulta, la presenza di un limite così rigido alla quantificazione del risarcimento per il licenziamento illegittimo — scollegato, peraltro, dalla gravità del vizio del recesso, potenzialmente anche molto grave — determina una chiara violazione dei criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del ristoro del danno patito dal lavoratore illegittimamente espulso.

Di fatto, il ristoro si traduceva, nella maggior parte dei casi, in una sorta di indennità forfettaria, concessa in forma automatica.

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Contemporaneamente, spiega la Corte, la norma non garantiva una protezione adeguata ai lavoratori, risultando contraria all’articolo 3 della Costituzione, in quanto generava una disparità di trattamento ingiustificata e penalizzante rispetto ai dipendenti delle imprese con più di 15 lavoratori.

Con un altro punto a favore dei lavoratori ingiustamente licenziati, la sentenza rimuove e supera quella standardizzazione della tutela che finiva per trattare in modo sostanzialmente identico violazioni di gravità differente. Un approccio inadeguato, che non consentiva di calibrare l’indennizzo sul singolo caso concreto.

Anzi, la Corte suggerisce al legislatore che il criterio dimensionale, basato solo sul numero dei dipendenti, non può essere considerato da solo un indicatore valido della forza economica dell’impresa e, quindi, della sua capacità di sostenere i costi legati a un licenziamento illegittimo.

La Consulta segnala altri fattori, come ad esempio il fatturato, che non possono essere ignorati se si vuole garantire una tutela effettiva ai lavoratori esclusi e non più reintegrabili (salvo casi particolari).

A questo punto, con un Jobs Act sempre più privo di pezzi fondamentali, l’intera disciplina dei licenziamenti andrebbe riscritta, tenendo conto ovviamente delle indicazioni provenienti dalle sentenze costituzionali che si sono succedute negli anni, come la n. 183 del 2022.

Che cosa cambia in concreto per i lavoratori dipendenti

Grazie alla pronuncia della Corte, il limite delle 6 mensilità di risarcimento viene meno per i lavoratori delle piccole imprese assunti dal 7 marzo 2015 in poi, che fino a oggi erano soggetti alle regole del D.lgs. 23/2015.

Dopo questa nuova mazzata al Jobs Act — che si aggiunge a quella, precedente, contro le limitazioni alla reintegrazione — i dipendenti potranno ora contare su un nuovo tetto massimo del risarcimento pari a 18 mensilità lorde.

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Questo importo sarà determinato in base:

  • alla dimensione aziendale;
  • all’anzianità di servizio;
  • alla gravità del comportamento illecito.

In sostanza, i lavoratori delle piccole imprese assunti dopo il 7 marzo 2015 potranno accedere a risarcimenti più consistenti.

A partire dalla contestazione del licenziamento, si svilupperà l’iter legale, e sarà il giudice del lavoro a stabilire l’entità del ristoro economico, tenendo conto della nuova forbice: non più da 3 a 6 mensilità, ma da 3 a 18 mensilità per tutti. Una soglia allineata alla metà della fascia prevista per le grandi imprese, cioè da 6 a 36 mensilità.

La valutazione del magistrato dovrà essere calibrata sul singolo caso e, verosimilmente, dovrà considerare anche la forza economica dell’azienda nel suo complesso e non solo in base al numero di dipendenti.

La stessa Corte Costituzionale lo ha indicato chiaramente nella sentenza n. 118, in attesa che il legislatore intervenga con una normativa specifica e coerente, capace di superare un impianto che appare sempre più frammentato e disomogeneo.

Questo ampliamento degli importi risarcitori rappresenta una forma di tutela economica molto più incisiva rispetto al passato, con indennizzi che potrebbero triplicare rispetto al vecchio massimale.

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Infine, per chi è stato assunto prima dell’8 marzo 2015, non cambia nulla. Resta in vigore la legge 604/1966 e, per le aziende con meno di 16 dipendenti, si continua ad applicare il limite delle 6 mensilità, aumentabile a 10 o 14 in base all’anzianità e al numero di lavoratori in forza.





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