Qualche settimana fa, commentando l’accordo Nato sull’aumento della spesa per la difesa, il Diario europeo notava come l’impegno a portare la spesa militare al 3,5 per cento del Pil (più un ulteriore 1,5 per cento per le infrastrutture di difesa) rappresenti, nei fatti, un gigantesco riorientamento delle priorità di spesa pubblica.
In un contesto segnato dal ritorno del Patto di Stabilità e dalla pressione a ridurre il debito, un tale aumento delle risorse destinate alla difesa non può che avvenire a scapito di altri capitoli di spesa: welfare, sanità, istruzione, investimenti verdi e digitali.
Il cuore dell’argomentazione era che ci troviamo davanti alla prospettiva di un cambiamento profondo del contratto sociale europeo che non è imposto da forze esterne, ma abbracciato con convinzione dalle élite politiche europee.
Sostenevo insomma che l’accordo sul 5 per cento non è tanto una dimostrazione di debolezza di fronte alla prepotenza dell’amministrazione Trump, quanto un’occasione che non ci si è fatti sfuggire per proseguire nel lento ma inesorabile smantellamento del modello sociale europeo basato sul welfare pubblico.
Il finanziamento
Se due indizi iniziano a fare una prova, diventa interessante leggere l’articolo di Daniela Gabor pubblicato dal Financial Times il due luglio e che, discutendo dei progetti di trasformazione del sistema di finanziamento dell’investimento in Europa, giunge a conclusioni analoghe. Gabor nota come, nel tentativo di soddisfare l’enorme fabbisogno d’investimenti legato alla transizione verde e digitale, l’Unione europea si orienti verso un cambiamento strutturale profondo, con l’intenzione di passare da un modello basato sul credito bancario a uno più simile a quello americano, fondato sul mercato dei capitali.
Dai rapporti di Letta e Draghi emerge la convinzione che, per poter effettuare gli investimenti necessari alle transizioni e all’aumento della produttività, occorre “liberare” i risparmi europei (in particolare ottomila miliardi oggi parcheggiati nei depositi bancari) e indirizzarli verso investimenti di lungo periodo. È questo l’obiettivo della proposta cui lavora la Commissione europea di creare un’Unione del risparmio e degli investimenti (Savings and Investment Union, Siu) al fine di mobilitare il risparmio privato per finanziare i circa ottocento miliardi di euro all’anno necessari alla transizione ecologica, alla digitalizzazione e alla competitività industriale (il 5 per cento del Pil dell’Ue, quasi equamente diviso tra investimenti pubblici e privati).
I proponenti della Siu insistono sul fatto che la maggior propensione all’investimento (soprattutto l’investimento privato) negli Stati Uniti possa essere spiegata dal maggiore sviluppo dei mercati dei capitali. Effettivamente, negli Usa il valore dei fondi pensione privati supera il 130 per cento del Pil mentre in Europa, con l’eccezione di Olanda e Danimarca, la cifra è inferiore al 20 per cento.
L’Unione dei risparmi e degli investimenti servirebbe proprio a creare gli incentivi che spingano i risparmiatori europei a spostare i loro risparmi dai depositi bancari verso fondi pensione e altri strumenti finanziari, trasformandosi in investitori di lungo periodo.
A prima vista, si tratta di una mera operazione tecnica: modificare l’architettura finanziaria dell’Unione per colmare un “gap” di finanziamento e consentire un più efficiente appaiamento tra risparmiatori in cerca di impieghi e imprese in cerca di finanziamento.
Ma Gabor argomenta che si tratta invece di un’operazione molto più radicale e distruttiva. In primo luogo, la narrazione per cui l’Europa soffrirebbe di una carenza di finanziamenti per l’economia è tanto diffusa quanto fuorviante. I risparmi europei non sono “intrappolati” nei conti correnti, ma già finanziano l’economia reale attraverso il credito bancario.
Il vero motivo per l’insufficienza di investimenti non è la scarsità di risorse finanziarie, ma la mancanza di progetti credibili e sufficientemente redditizi in cui investirle.
Parlare di «mobilitare il risparmio» senza affrontare il problema della domanda d’investimento, cioè della scarsa propensione al rischio delle imprese e della capacità delle politiche pubbliche di creare un ecosistema propizio all’accumulazione del capitale, è secondo Gabor un modo pilatesco per spostare il discorso dal piano politico a quello tecnico.
La scelta
Ma c’è un aspetto molto più inquietante, per il quale l’analogia con il dibattito sulla spesa militare salta agli occhi. È certo vero che i fondi pensione sono molto più sviluppati negli Stati Uniti che da noi; tuttavia, questo non avviene per motivi tecnici, ma più semplicemente perché in Europa il pilastro pubblico della previdenza è ancora predominante.
Insomma, afferma Gabor, per avere uno sviluppo dei mercati dei capitali simile a quello degli Stati Uniti e per orientare i risparmi delle famiglie verso i fondi pensione e i mercati, sarebbe inevitabile ridimensionare il ruolo dei sistemi pensionistici pubblici a ripartizione, spingendo verso un sistema a capitalizzazione tramite fondi privati. In altre parole, cambierebbe in profondità il contratto sociale che ancora regge la maggioranza dei paesi del vecchio continente.
Perché, nota ancora Gabor, «se gli europei risparmiassero come gli americani, potrebbero anche dover vivere come loro», con una protezione sociale ridotta e i loro risparmi affidati a fondi di investimento il cui scopo principale è il profitto.
Le infrastrutture sociali (ospedali, case di riposo, etc.), una volta privatizzate, non sono gestite con criteri solidaristici per garantire servizi e protezione sociale (soprattutto ai più deboli), ma per assicurare rendimenti adeguati agli investitori. Ciò che i risparmiatori europei guadagnerebbero (se lo guadagnassero) in termini di maggiori rendimenti per i loro risparmi, lo perderebbero in termini di minore copertura e maggiori costi di un welfare privatizzato.
Ravvivare la democrazia
Insomma, come nel caso della spesa militare, anche qui siamo di fronte a una decisione politica di grande portata, che necessariamente porterebbe a una revisione radicale del contratto sociale europeo, con vincitori e vinti. E, come nel caso della spesa militare, questo viene occultato in modo unilaterale nelle pieghe di un dibattito tecnico, cercando di nascondere la portata di una scelta che è per sua natura politica e che in quanto tale meriterebbe un dibattito pubblico.
Non ci sarebbe niente di male a discutere di pregi e difetti dei modelli americano ed europeo nell’organizzare la protezione sociale e più in generale il ruolo della mano pubblica nell’economia, per poi consentire ai cittadini di fare una scelta democratica e informata. Se si continua a procedere per sotterfugi è forse perché i partigiani del modello americano non sono sicuri che la sua adozione aumenterebbe effettivamente il benessere collettivo.
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