Da Legacoop a Confcommercio, da Acea a Federacciai e Confcooperative: la preoccupazione sui rincari delle associazioni di categoria
Assica, con 15% imprese salumi made in Italy a rischio crisi, serve confronto con Usa
L’annuncio dell’imposizione di nuovi dazi del 15% sui salumi europei da parte dell’amministrazione Trump rischia di mettere in crisi uno dei mercati più strategici per il settore italiano: gli Stati Uniti, che nel 2024 si sono confermati come terza destinazione per l’export di salumi made in Italy, con oltre 20.000 tonnellate esportate (+19,9%) e un giro d’affari di 265 milioni di euro (+20,4% rispetto al 2023). E’ l’allarme che lancia Assica, Associazione industriali delle carni e dei salumi, l’organizzazione nazionale di categoria che, nell’ambito di Confindustria, rappresenta le imprese di produzione dei salumi (sia di carne suina sia di carne bovina), di macellazione suina e di trasformazione di altri prodotti a base di carne. “L’incremento tariffario rappresenta un freno significativo per le nostre imprese, che già operano in un contesto globale estremamente instabile. A subire le conseguenze saranno sia i produttori italiani sia i consumatori statunitensi, che dovranno affrontare un inevitabile aumento dei prezzi”, ha commentato Lorenzo Beretta, presidente di Assica. “Diversamente dal 2019, quando le misure colpirono solo specifiche tipologie di prodotti, oggi la tassa doganale si applica a tutta la categoria dei salumi, con un impatto particolarmente pesante sui prosciutti crudi, che costituiscono la principale voce dell’export verso gli Usa”, ha continuato. Questo scenario si inserisce in un contesto già critico per l’industria italiana delle carni e dei salumi, fortemente penalizzata sul fronte export dalla diffusione della Peste suina africana (Psa). Le conseguenti restrizioni sanitarie hanno portato alla chiusura di mercati rilevanti come Giappone e Cina, riducendo ulteriormente le opportunità di sbocco internazionale.
Cgil, ’presidente del Consiglio convochi urgentemente le parti sociali’
“Chiediamo alla presidente del Consiglio di convocare urgentemente tutte le parti sociali per valutare il quadro complessivo delle ricadute in ogni settore e i provvedimenti necessari per tutelare lavoratrici e lavoratori e salvaguardare il nostro tessuto produttivo”. Così il segretario confederale della Cgil, Christian Ferrari.
“Se le anticipazioni venissero confermate, l’Unione europea non avrebbe scongiurato la guerra commerciale con gli Usa, l’avrebbe prima subita senza reagire, per poi perderla con una resa incondizionata della Commissione e dei governi nazionali, a cominciare da quello italiano. In attesa dell’accordo formale, e del quadro completo delle ricadute sui diversi settori produttivi, appare questa la sostanza di quanto accaduto. Per rendersene conto basta elencare i punti di quello che, più che un accordo politico, somiglia a un’autentica capitolazione”. Così il segretario confederale della Cgil, Christian Ferrari. “Mentre le merci europee subiranno dazi generalizzati del 15% (oltre alla svalutazione del dollaro, che pesa per un ulteriore 13%), quelle americane non pagheranno alcun dazio. C’è poi l’impegno dell’Ue ad acquistare, in tre anni, 750 mld di dollari di beni energetici fossili americani (gas e petrolio), aggravando uno dei principali fattori (i costi delle bollette) che stanno compromettendo la competitività delle imprese europee e i bilanci delle famiglie. A questo – aggiunge – vanno aggiunti ulteriori investimenti europei in Usa per 600 mld di dollari, che equivarrebbe a delocalizzare le nostre produzioni, con conseguente creazione di lavoro e reddito negli Usa anziché in Europa. E ancora: l’acquisto di sistemi d’arma americani, in funzione del folle obiettivo – fissato in ambito Nato – di portare la spesa militare al 5% del Pil”. Inoltre, continua Ferrari, “per ringraziare il presidente Trump del trattamento che ci ha riservato, dovremmo garantire: l’assenza di contromisure sui servizi digitali e finanziari, che assicurano agli Stati Uniti un rilevante avanzo commerciale; l’esenzione dalla global minimum tax, decisa in ambito G7, per tutte le multinazionali americane; la non applicazione della digital service tax sulle big tech statunitensi, che potranno continuare a godere dei paradisi fiscali in Irlanda, Olanda, Lussemburgo; la rinuncia, di fatto, a implementare i rapporti commerciali con la Cina e i Brics, che potrebbero rappresentare fondamentali mercati di sbocco per le nostre merci”.
Ferrari parla di “ricadute pesantissime sul sistema produttivo continentale e sull’occupazione”. Per il segretario confederale, “senza cambiare una linea politica così autolesionista, c’è il concreto rischio che si scateni una tempesta perfetta sull’economia europea e, in particolare, su quella italiana”. Per la Cgil ci sono, nell’immediato, provvedimenti molto precisi da assumere, sia a livello nazionale che continentale: “innanzitutto, va protetto il lavoro, sia per quanto riguarda i livelli occupazionali (attraverso ammortizzatori sociali sul modello Sure, anche prevedendo il divieto di licenziamento, come durante la fase pandemica) sia a tutela dei redditi (a partire dal rinnovo di tutti i Ccnl, la detassazione degli incrementi contrattuali, la restituzione del fiscal drag)”. Occorrono poi misure e strumenti straordinari per impedire le delocalizzazioni verso gli Usa, evitando di accelerare ancor di più il processo di deindustrializzazione; in prospettiva, va creato un vero mercato unico dell’energia, con l’obiettivo di ridurne i costi e rilanciare le fonti rinnovabili; è necessario ridefinire una strategia economica e industriale dell’Ue “che abbandoni definitivamente il mercantilismo e le politiche di austerità e che, finalmente, liberi lo straordinario potenziale inespresso della domanda interna europea, con politiche comuni più espansive (modello NextGenEu): per finanziare investimenti pubblici su infrastrutture, conoscenza, salute e beni comuni; per aumentare i salari reali dei lavoratori; per mettere in campo vere politiche industriali per la conversione ecologica, la transizione energetica e l’innovazione tecnologica del nostro sistema produttivo”. “La montagna di miliardi promessa a Trump dovrebbe essere destinata interamente a questi scopi. Ciò non accadrà senza una mobilitazione politica e sociale che spinga i governi e le istituzioni europee a cambiare una rotta che, altrimenti, ci porterà inevitabilmente a sbattere”, conclude.
Carney (Canada), fase cruciale, margini per accordo con Usa
Il primo ministro canadese, Mark Carney, ha dichiarato che i colloqui con la Casa Bianca per un accordo sui dazi sono in una “fase cruciale” e ritiene che ci possano essere “margini per un accordo”. Trump ha fissato al primo agosto la scadenza per il raggiungimento di accordi tra gli Stati Uniti e gli altri Paesi per risolvere l’attuale controversia sui dazi. “I negoziati sono in una fase intensa”, ha affermato Carney, che ha poi ribadito che il Canada non firmerà un accordo a meno che non sia vantaggioso per i lavoratori del Paese. I canadesi vogliono una soluzione, “ma vogliono la soluzione giusta”.
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