Il Tesoro americano prevede 300 miliardi di introiti fiscali grazie all’aumento delle tariffe. Ma chi li pagherà?
All’indomani della vittoria di Donald Trump alle presidenziali di novembre, tre ricerche si sono imposte su Google negli Stati Uniti: Cosa sono i dazi? A che servono? Chi li pagherà? Quattro mesi più tardi, dopo il «Liberation Day» del 2 aprile, è toccato agli abitanti di tutto il resto del mondo compulsare internet alla ricerca delle stesse risposte. Ora, per lo meno noi europei, e a scanso di sorprese, possiamo averne alcune e cominciare a fare i conti.
Perché Donald Trump ha alzato le barriere
La Casa Bianca intende riequilibrare la bilancia commerciale: nel 2024 gli Stati Uniti hanno importato dall’estero merci per 3.296 miliardi di dollari e ne hanno vendute per 2.084 miliardi, con un disavanzo di 1.212 miliardi. Rendendo più costosi i beni stranieri, i dazi dovrebbero incentivare la produzione americana. Trump vuole così aumentare i posti di lavoro nella manifattura che in 50 anni è scesa dal 24 all’8% dell’occupazione totale negli Usa.
Di quanto sono salite le imposte doganali
Il calcolo globale è difficile perché la Casa Bianca sta modificando di continuo le aliquote mano a mano che stringe accordi commerciali con i vari Paesi. L’intesa appena raggiunta con l’Ue, stima Ubs, ha più che decuplicato la tassa doganale media ponderata sulle merci europee in arrivo negli Usa, dall’1,5% effettivo del 2024 al 15,2% attuale.
Chi pagherà il conto delle tariffe
I dazi si riscuotono alla dogana, quando la merce arriva negli Usa. L’azienda produttrice potrebbe decidere di assorbire il dazio, accettando di sacrificare i suoi profitti, se teme che un aumento dei prezzi scoprirebbe il fianco alla concorrenza locale o di altri Paesi. All’opposto, qualora un’impresa consideri il suo prodotto insostituibile o i suoi clienti «insensibili» al prezzo, può mantenere i prezzi invariati e scaricare il maggior costo su importatori e consumatori. È probabile che gran parte delle imprese europee opti per una soluzione intermedia, distribuendo in misura variabile l’aggravio con il distributore e il cliente.
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Gli effetti della misura: il precedente del 2018
Oggi è troppo presto per dire se i dazi di Trump ridurranno il deficit commerciale e rilanceranno la manifattura americana. Per qualche indizio si può guardare agli esiti del dazio fino al 50% imposto sulle lavatrici da Trump nel 2018 e in vigore sino al 2023. Nei cinque anni il prezzo delle lavatrici negli Usa è salito del 34%, più del 23% dell’inflazione generale, comportando un extra-spesa per i consumatori americani di 1,5 miliardi. Nello stesso periodo i produttori di lavatrici hanno creato 1.800 posti di lavoro negli Usa. Una volta eliminati i dazi, però, l’import di lavatrici in America è tornato sopra ai livelli del 2018.
L’impatto sui prezzi negli Stati Uniti
Sinora l’impatto dei dazi sui prezzi è stato contenuto. A giugno l’inflazione si è attestata a +2,7%. È possibile che nell’incertezza le imprese esitino ad alzare i prezzi oppure che abbiano fatto scorta prima del «Liberation Day». Di norma, queste scorte durano 60-90 giorni, quindi l’effetto dei dazi potrebbe avvertirsi soprattutto nella seconda parte dell’anno.
Il gettito per l’erario americano
Fra gennaio e giugno le entrate doganali degli Stati Uniti sono pressoché raddoppiate, toccando i 108 miliardi. Il Tesoro Usa prevede che a fine anno arriveranno a 300 miliardi. Se le importazioni o i consumi si ridurranno, però, la cifra potrebbe rappresentare un picco.
Cosa contiene l’accordo fra Stati Uniti e Ue
Prevede un dazio generalizzato del 15% sulle importazioni europee negli Stati Uniti, con diverse eccezioni, tuttora oggetto di negoziato. L’Ue si è poi impegnata ad acquistare petrolio e gas americani per 250 miliardi l’anno e a investire 600 miliardi in armamenti. Ma questi sono impegni che riguardano il settore privato o i governi nazionali sui quali la Ue può prendere solo impegni politici non vincolanti.
La crescita più sensibile all’incertezza che ai dazi
Il Fondo Monetario Internazionale, ieri, ha rivisto al rialzo le stime sull’andamento dell’economia mondiale, basandosi su un dazio effettivo Usa medio del 17%, non lontano dal 15% concordato con la Ue. Siamo sempre su valori molti alti, pari a quelli degli anni ‘30 del secolo scorso, ma l’impatto sull’economia mondiale pare essere relativo. La crescita viene rivista al rialzo al 3%, contro il 2,8% stimato ad aprile, anche se è inferiore a quella del 2024 (+3,3%). Per l’Italia il Fmi ha ritoccato all’insù le previsioni, portandole dal +0,4 al +0,5% per quest’anno e confermando un +0,8% nel 2026.
Le esportazioni negli Usa sono in aumento
In primavera e a inizio estate, quando Trump minacciava i dazi al 30 e al 50%, le previsioni per l’economia, anche italiana, erano molto peggiori. Temendo la stangata del presidente americano, nel frattempo le esportazioni italiane negli Usa, sono volate. Anche per questo, alla fine, sono migliorate le prospettive di crescita del 2025 per tutta la zona euro (+1% nel 2025, contro lo 0,8% stimato dal Fmi ad aprile).
Le due facce della svalutazione del dollaro
Da inizio anno l’euro si è apprezzato dell’11% rispetto al dollaro. La svalutazione del biglietto verde rende altrettanto più care le merci europee vendute negli Stati Uniti. D’altra parte, rende più conveniente per l’Ue le importazioni di prodotti americani, fra cui l’energia: Bruxelles si è impegnata ad acquistare dagli Usa petrolio e gas per 250 miliardi per tre anni.
Quali rischi corrono le imprese italiane
Il rischio è quello di non riuscire a vendere le merci negli Usa, perché diventano troppo care per i consumatori americani. Su Il Foglio l’economista Carlo Alberto Carnevale Maffè sostiene che a fronte di un incremento del dazio medio effettivo del 10,9% (il 15% ingloba il vecchio dazio medio del 4,8%), l’Italia sconterebbe in realtà l’11%.
Le strategie allo studio per assorbire l’impatto
Secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, con i dazi Usa al 20%, si sarebbe rischiata una perdita di mezzo punto del valore aggiunto complessivo e di 110 mila posti di lavoro. Per non subire una riduzione del valore aggiunto le imprese dovrebbero trovare altri mercati di sbocco per le loro merci, cosa non semplice perché il mercato Usa rappresenta il 5% delle nostre esportazioni. Per alcuni prodotti sarà difficile, se non impossibile sostituirlo, come per i farmaci, che non hanno altri mercati così ricettivi nel mondo.
I settori più colpiti
La farmaceutica, con 10 miliardi di export negli Usa che rappresentano quasi il 27% della produzione italiana, sulla carta è quella che rischia di più. Sul livello dei dazi, però, c’è ancora un giallo, che dovrà essere risolto nella versione ufficiale dell’accordo: per gli Usa, intanto, sono al 15%, per la Ue a zero. Il super dazio su acciaio e alluminio ci interessa poco perché le esportazioni italiane sono ormai irrisorie. Più complicato, sempre che non si stabilisca un’esenzione particolare, per auto e componenti, per la moda, per l’agroalimentare.
I possibili aiuti nazionali ed europei
Il governo italiano ha già bussato all’Ue per chiedere un aiuto alle imprese che subiranno il maggior impatto dei dazi. Tra le ipotesi un regime temporaneo più lasco sugli aiuti di Stato, aiuti diretti europei per “filiera” e non per Paese, l’utilizzo di ciò che resta del Pnrr. In ogni caso serve un coordinamento Ue, perché molti paesi, come l’Italia anche per i vincoli del Patto di Stabilità, non sono in condizione di spendere come altri per sostenere le imprese.
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