di Stefania Peveraro
direttore di BeBeez
chairman & founder di EdiBeez srl
Cari lettori,
L’accordo siglato lo scorso 27 luglio tra il presidente Usa, Donald Trump, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen (si vedano qui le dichiarazioni della von der Leyen, qui il comunicato stampa della Commissione UE e qui quello della Casa Bianca), che stabilisce dazi al 15% sull’export Ue (eccezioni a parte) verso gli Stati Uniti, quindi meglio del 30% paventato nei mesi scorsi, oltre all’impegno dell’UE a fare investimento per 600 miliardi di dollari e a importare energia americana per 750 miliardi entro il 2028, ha avuto un effetto calmierante sui mercati finanziari, spingendo al rialzo i listini dopo mesi di incertezza tariffaria.
Eppure c’è poco da stare allegri. La maggior parte delle imprese italiane che esportano negli Usa ha infatti margini di ebitda ben al di sotto del 10% del prezzo dei beni che vende. Lo sottolinea in un suo recente post Linkedin Simone Strocchi, fondatore di Electa (gruppo Azimut), promotore di numerose Spac e pre-booking company e che affianca i principali protagonisti del private equity attivi in Italia, lavorando dietro le quinte per trovare la struttura migliore per i vari deal. In sostanza, quindi, applicare un dazio del 15% sul fatturato realizzato in Usa significa briciare tutto il margine e spesso andare oltre, portando l’intera operazione in perdita. E non è affatto detto che il mercato americano sia disposto ad assorbire quell’incremento di prezzo. Questo è tanto più vero nei settori industriali, dei beni capitali o dell’automotive, dove le controparti Usa possono costringere i produttori europei a riassorbire il dazio in margine piuttosto che trasferirlo completamente sul prezzo finale. E se i clienti Usa, business o retail che siano, non accetteranno un rincaro, il dazio finirà per erodere oltre l’ebitda, minando la sostenibilità stessa dell’export.
Per i fondi di private equity europei e italiani e le loro partecipate che esportano negli Stati Uniti, il nuovo scenario pone quindi una serie di sfide concrete, ma anche opportunità da sfruttare con strategia. Proprio le partecipate dei fondi, che hanno quindi la fortuna di avere dei soci con le spalle larghe, possono permettersi di adottare strategie di localizzazione di parte del lavoro negli Stati Uniti. Inoltre, sul fronte dei futuri investimenti, i fondi di private equity possono trovare terreno più fertile per acquisire aziende italiane ed europee esportatrici che vogliano consolidare la loro presenza negli Stati Uniti con acquisizioni locali o partnership industriali, limitando quindi l’esposizione diretta all’export. È un’opportunità concreta per piattaforme di private equity che vogliano creare campioni globali anche attraverso partnership o joint-venture transatlantiche.
Su questo fronte gli advisor m&a potranno sbizzarrirsi nell’individuare opportunità di investimento da sottoporre ai fondi. E a proposito di advisor, nell’inchiesta di copertina di questo mese di BeBeez Magazine vi proponiamo un ragionamento sul grande interesse che i fondi di private equity stanno dimostrando per il settore della consulenza in senso lato, quindi non solo advisory m&a e corporate finance, ma advisory strategica, fiscale, di comunicazione, formazione professionale sino anche a quella legale. Tutti business fatti di persone, che non sono facili né da valutare né da mantenere fedeli dopo un deal. Ciò detto i metodi ci sono e i deal si fanno eccome.
Buona lettura!
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