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“AI woke” sotto accusa negli Usa: cosa vuole davvero Trump


Il 23 luglio 2025, la Casa Bianca ha pubblicato il nuovo AI Action Plan, accompagnato da un ordine esecutivo del presidente Trump.

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L’obiettivo: combattere l’influenza culturale progressista nei modelli linguistici, imponendo criteri di “neutralità ideologica” per le AI utilizzate dalle agenzie federali. Il piano ha rilanciato il concetto di “AI woke” come minaccia politica e culturale.

Ma cosa significa davvero costruire un’AI imparziale? E quali sono le implicazioni legali, tecniche e democratiche di questa pretesa di neutralità? Quali sono i fondamenti tecnologici dei LLM, i casi più discussi, le reazioni giuridiche e il ruolo del Primo Emendamento nella definizione dei limiti dell’intervento pubblico sui contenuti generati da intelligenze artificiali.

Come nasce il concetto di “AI woke” e cosa significa oggi

Negli Stati Uniti, il termine “woke” ha subito una trasformazione semantica significativa: nato nei contesti afroamericani come segnale di consapevolezza rispetto a ingiustizie razziali e sociali, è stato progressivamente riappropriato in senso critico da parte del mondo conservatore, diventando sinonimo di eccesso di correttezza politica, censura culturale e impegno ideologico forzato. Questa battaglia semantica ha trovato un nuovo terreno nel dominio dell’intelligenza artificiale.

L’espressione “AI woke” è oggi usata per denunciare un presunto orientamento politico-liberale nei chatbot e nei modelli linguistici avanzati, accusati di filtrare, modificare o evitare contenuti che esprimono posizioni conservatrici o non conformi alla cultura dominante nelle aziende tecnologiche della Silicon Valley. Le accuse si concentrano su comportamenti ritenuti distorsivi: risposte che evitano di lodare Donald Trump o il conservatorismo religioso; trattazioni che normalizzano identità di genere non binarie o movimenti ambientalisti; omissioni o riformulazioni che sembrano orientate a tutelare minoranze, a scapito della “verità storica” o della libertà di espressione. In quest’ottica, anche l“assenza di risposta” viene letta come un atto ideologico.

AI woke e rappresentazioni culturali: il caso Gemini

Un caso emblematico è stato quello di Gemini, il modello AI di Google, che nel 2024 ha generato immagini di Padri Fondatori americani con tratti afroamericani o asiatici in risposta a richieste su George Washington e Abraham Lincoln.

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L’intento dichiarato era favorire rappresentazioni inclusive, ma l’effetto mediatico è stato quello di rafforzare l’accusa di “riscrittura ideologica della storia”. Il Missouri ha avviato un’indagine formale, mentre al Congresso si sono moltiplicate le interrogazioni e le richieste di trasparenza da parte di esponenti conservatori. In breve, l’espressione “AI woke” è diventata un contenitore polemico, un’etichetta che catalizza sospetti, paure e tensioni ideologiche, e che spinge a interrogarsi su chi decide cosa può essere detto, mostrato o suggerito da un sistema di intelligenza artificiale.

Come funziona davvero un LLM: perché non può essere neutrale

Un modello linguistico come ChatGPT o Claude non ha un’opinione, né una volontà. Produce testo sulla base di un meccanismo predittivo, stima la parola o la frase più probabile successiva in una sequenza, sulla base di un’enorme quantità di dati testuali. Questa predizione è resa possibile dalla presenza di miliardi di parametri, ovvero numeri che definiscono la forza delle connessioni tra le parole, frasi e concetti, appresi durante la fase di addestramento. I modelli più avanzati possono arrivare a utilizzare centinaia di miliardi di parametri. Ma è proprio qui che si annida il problema, i parametri non sono scelti a caso, bensì ottimizzati su dati umani che portano con sé visioni del mondo, stereotipi culturali, squilibri di rappresentazione, contenuti marginalizzati. I pesi appresi riflettono dunque la struttura statistica dei dati originali, compresi i loro bias. Inoltre, gran parte dei LLM oggi utilizza una tecnica detta reinforcement learning from human feedback (RLHF), annotatori umani le risposte generate e premiano quelle ritenute più appropriate.

Ma chi decide cosa è “appropriato”? Le linee guida fornite ai valutatori sono spesso basate su criteri come sicurezza, correttezza, inclusività. Scelte comprensibili, ma che rispecchiano specifici valori culturali. Di conseguenza, le risposte dei chatbot possono sembrare “progressiste” non perché il modello abbia un’ideologia propria, ma perché i criteri con cui viene corretto premiano contenuti ritenuti più sicuri, più neutrali, più accettabili dal punto di vista di chi li sviluppa. Il concetto stesso di “neutralità” nei LLM è dunque fragile. Ogni fase, scelta dei dati, definizione dei pesi, regolazione tramite feedback umano, è un atto tecnico ma anche culturale. Ed è per questo che non si può parlare di AI neutrale nel senso assoluto: perché il linguaggio stesso è portatore di intenzioni, contesti e ideologie.

Il mito della neutralità e i rischi della falsa equivalenza

Invocare la neutralità nei chatbot può sembrare un’esigenza tecnica o etica, ma è spesso un’operazione profondamente ideologica. In un contesto polarizzato, ogni output generato da un modello viene letto attraverso lenti politiche: un chatbot che evita di lodare Donald Trump viene accusato di progressismo; uno che lo elogia senza riserve rischia l’accusa opposta. In entrambi i casi, la percezione di faziosità emerge dalla discrepanza tra l’aspettativa dell’utente e l’output del modello.

Questa dinamica si complica ulteriormente quando entra in gioco la richiesta di bilanciamento: mostrare “entrambi i lati” di un argomento. Se applicata indiscriminatamente, questa logica può portare a risultati problematici. Un esempio classico è il cambiamento climatico: fornire pari spazio alle posizioni negazioniste, in nome della neutralità, finisce per legittimare opinioni smentite dal consenso scientifico. Questo fenomeno è noto come falsa equivalenza: dare lo stesso peso a posizioni non equivalenti in termini di evidenza, rigore e legittimità.

Inoltre, il tentativo di “correggere” un bias può facilmente introdurne un altro. La rimozione dei filtri percepiti come “woke” non produce un modello neutro, ma semplicemente un modello diverso, magari più permissivo verso contenuti potenzialmente discriminatori, aggressivi o infondati. Un paradosso dell’equilibrio forzato, nel tentativo di bilanciare tutto, si finisce per distorcere tutto. Infine, il concetto stesso di neutralità nel linguaggio è problematico. Il linguaggio umano è carico di intenzionalità, contesto e valori impliciti.

Ogni frase generata da un LLM è il risultato di scelte statistiche basate su dati umani, scegliere le parole “più probabili” significa, in un certo senso, scegliere le parole “più frequenti”, ma anche quelle culturalmente più presenti o socialmente più accettabili. In questo senso, la neutralità assoluta è una chimera. Il rischio è quello di costruire chatbot che non informano, non contraddicono e non problematizzano: modelli addestrati a rassicurare, non a stimolare il pensiero critico. In nome della neutralità, potremmo ottenere strumenti docili, conformisti e funzionali a chi li controlla, più che realmente imparziali.

L’AI woke come strumento politico nel piano Trump

Il concetto di “AI woke” non è solo un’etichetta polemica, ma è ormai diventato uno strumento politico strategico. Lo dimostra chiaramente l’AI Action Plan presentato da Donald Trump il 23 luglio 2025. Il documento segna una svolta esplicita, per la prima volta un’amministrazione federale statunitense considera l’orientamento culturale percepito nei modelli linguistici come un problema da regolare con strumenti governativi. Il piano introduce misure che vincolano l’accesso ai fondi pubblici a specifici criteri di “neutralità ideologica”.

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Le aziende che sviluppano modelli AI e che vogliono ottenere contratti federali devono sottoporsi a verifiche indipendenti, dimostrare che le loro AI non promuovono contenuti politicamente orientati e adeguarsi a linee guida federali che definiscono cosa è “imparziale”. In caso contrario, sono escluse dalle gare pubbliche. L’obiettivo dichiarato è “eliminare il woke” dall’AI. Trump ha affermato: “Il popolo americano non vuole follia marxista nei modelli di AI, e nemmeno il resto del mondo.” Ma dietro questa affermazione si cela un problema ben più profondo.

Fino a che punto il governo può condizionare la produzione linguistica di un sistema AI senza violare la libertà di espressione garantita dalla Costituzione? Molti esperti vedono in queste misure una forma di jawboning, un’azione indiretta dello Stato per orientare i contenuti, esercitando pressioni economiche invece di approvare leggi esplicite. Genevieve Lakier, docente di diritto costituzionale all’Università di Chicago, ha dichiarato al New York Times: “Se produci output che non ci piacciono, che chiamiamo faziosi, non ti daremo i fondi federali a cui avresti diritto. Questo sembra un atto incostituzionale.” Il dibattito si inserisce nel solco di un precedente giurisprudenziale cruciale: Murthy v. Missouri (2024). In quel caso, la Corte Suprema aveva discusso i limiti del potere esecutivo nel dialogo (e pressione) esercitato verso le piattaforme social durante l’amministrazione Biden, accusata di voler influenzare la moderazione dei contenuti online. Oggi la questione si ripropone a parti invertite: è l’amministrazione Trump a esercitare una pressione sugli sviluppatori di AI, ma per obiettivi ideologici opposti. In entrambi i casi, emerge lo stesso nodo: quando lo Stato entra nello spazio della regolazione dei contenuti digitali, anche con strumenti economici, rischia di compromettere il principio della libertà di espressione. E l’AI, lungi dall’essere un campo neutro e tecnico, diventa un terreno di scontro culturale dove si ridefiniscono i limiti del potere democratico.

Oltre la neutralità: verso una governance trasparente dell’intelligenza artificiale

I modelli linguistici non sono, e non possono essere, neutrali. Il loro funzionamento riflette le scelte fatte nei dati, negli algoritmi, nei parametri e nelle regole comportamentali. Ogni richiesta di “neutralità” è in realtà una scelta su quale orientamento privilegiare e quali contenuti reprimere. In questo senso, parlare di un’AI priva di ideologia è fuorviante, la selezione dei dati, i criteri di moderazione, la definizione degli standard etici e persino la nozione di “imparzialità” sono tutte scelte profondamente politiche e culturali. Per questo motivo, l’unica via percorribile non è fingere di eliminare i bias, ma esplicitare le regole, abilitare audit indipendenti, garantire pluralismo degli attori e trasparenza nei processi. Un sistema AI ben governato non è quello che pretende di essere neutro, ma quello che rende visibili e discutibili le scelte fatte lungo tutta la filiera: dalla raccolta dati all’output finale.




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