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Tutte le sfide economiche della Cina


Estratto dal rapporto “Fine del sottoconsumo? La difficile transizione dell’economia cinese” realizzato dal centro studi della Banca del Fucino

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Nel 2007 l’allora Premier della Cina Wen Jiabao definì la crescita dell’economia cinese “unstable, unbalanced, uncoordinated, and unsustainable”. Sono passati 18 anni da allora, e la Cina è oggi una realtà molto diversa, ma le parole dell’ex-Premier conservano una loro validità: la crescita dell’economia cinese è stata eccezionalmente rapida, trasformando in pochissimo tempo ed in maniera radicale uno dei Paesi più grandi e popolosi al mondo; non era difficile immaginare che un tale grande successo avrebbe portato con sé anche degli scompensi, in particolare nella forma di squilibri macroeconomici di varia natura. Il problema dei consumi rientra tra questi.

A partire in particolare dall’inizio della fase di riforma e apertura sotto Deng Xiaoping, la Cina ha posto come obiettivo primario del Paese lo sviluppo delle forze produttive. Ciò ha significato dare priorità allo sviluppo industriale e tecnologico, lasciando che i consumi privati crescessero come semplice conseguenza dei guadagni di produttività.

Questa strategia ha altrettanto indubbiamente portato i suoi frutti: la Cina ha scalato le catene globali del valore, e ad oggi domina alcune delle più importanti industrie ad alta tecnologia del nostro tempo, in particolare quelle legate alla transizione ecologica. Si tratta di risultati davvero straordinari, che pongono la Terra del Dragone tra i pochi esempi di catch-up riuscito nella storia recente (Grafico 9). Anche sul fronte dei consumi, come si è visto nel corso del lavoro, progressi notevoli sono stati realizzati (Grafico 10): le condizioni di vita della popolazione cinese sono oggi senza dubbio molto migliorate rispetto anche solo a 25 anni fa.

La rapidità della crescita cinese, perdipiù avvenuta in un territorio molto vasto e caratterizzato da grandi dislivelli di sviluppo regionali, ha però fatto emergere importanti squilibri macroeconomici, di cui il relativo sottosviluppo dei consumi è una delle manifestazioni principali. La consapevolezza di questa problematica si è negli anni fatta strada all’interno della dirigenza cinese, ed è in particolare con la presidenza di Xi Jinping che lo sviluppo di un fiorente mercato interno è stato reso un obiettivo di policy – sebbene non l’unico e, a lungo, neanche il principale. Tuttavia, in uno scenario di crescenti tensioni geopolitiche e commerciali – da ultimo culminate nella guerra commerciale oggi a tutti gli effetti in corso con gli Stati Uniti –, la svolta verso i consumi interni è ormai diventata improrogabile per la Cina.

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Sul fronte dei dazi, ad oggi la situazione appare in costante evoluzione, ed è pressoché impossibile effettuare previsioni attendibili su quale sarà il punto di caduta in termini di politica commerciale statunitense nel prossimo futuro. Allo stato attuale, tuttavia, la strada della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina appare pienamente imboccata, e le possibilità di un accordo tra i due Paesi sembrano modeste. Si tratta peraltro di una guerra commerciale ben più intensa rispetto a quella del primo mandato Trump, con dazi superiori al 100% da entrambe le parti, livelli di per sé sufficienti a ingenerare un disaccoppiamento tra le due economie. E la stessa presenza di rilevanti categorie di beni esentate dai dazi non sembra migliorare la situazione, se non su un piano meramente congiunturale.

Al contempo, quale sarà l’effettivo impatto dei dazi sull’economia cinese è ancora poco chiaro. Considerando il livello di integrazione ormai raggiunto dalle catene globali del valore, potrebbe rivelarsi complicato per gli Stati Uniti limitare l’export cinese. La Cina potrebbe in effetti – come già ampiamente fatto a partire dagli anni della prima guerra commerciale con gli Stati Uniti – aggirare le barriere tariffarie attraverso “Paesi terzi” come Vietnam o Messico . Per gli USA evitare tale mossa cinese significherebbe imporre dazi elevati anche a questi Paesi, una scelta che negli ultimi tempi ha dimostrato di avere conseguenze particolarmente pesanti per i mercati finanziari statunitensi. Per gli Stati Uniti si viene quindi a delineare un trade-off: lasciare aperta alla Cina la possibilità di aggirare i dazi commerciali tramite Paesi terzi o soffrire le conseguenze economiche e finanziarie di dazi generalizzati sulla netta maggioranza del proprio import, per una quota rilevante rappresentato da beni intermedi essenziali per l’industria americana.

Per la Cina, tuttavia, determinante sarà la riuscita o meno delle politiche di sviluppo del mercato interno. Questo dovrebbe consentire, infatti, di cogliere un duplice obiettivo:
1) Diminuire il surplus commerciale, alleggerendo le pressioni protezionistiche;
2) Ribilanciare la crescita export-led, accrescendo la componente rappresentata dalla domanda interna.

A questo scopo, obiettivi primari del governo saranno la riduzione del tasso di risparmio nazionale e l’innalzamento del potere d’acquisto della popolazione – specie in quelle fasce che finora sono rimaste maggiormente indietro, come gli abitanti delle zone rurali o i lavoratori migranti. Fondamentali a questo fine saranno interventi sul sistema di welfare pubblico, interventi che, tuttavia, senza dubbio richiederanno importanti aumenti della spesa pubblica. Si tratta di una situazione che espone la Cina a rilevanti rischi, sia per via dell’odierna situazione di elevato indebitamento dei governi locali sia per via – banalmente – del grandissimo numero di persone che il nuovo sistema dovrà andare a servire.

È forse questo il rischio principale per la buona riuscita della svolta economica di Pechino. Come è stato osservato, infatti, negli anni successivi alla pandemia la crescita cinese si è fatta marcatamente più debt-intensive, ovvero per ogni punto percentuale di crescita economica oggi lo Stato cinese si indebita – in una delle diverse forme possibili – più che in passato . Il rischio è che il debito statale possa crescere a tal punto da mettere in pericolo la stabilità finanziaria del Paese, un rischio che sicuramente non si realizzerà sul breve periodo ma che è ben presente sul medio-lungo termine.

Inoltre, se il disaccoppiamento che sembra essere in corso tra l’economia cinese e quella statunitense dovesse portare ad un significativo rallentamento della crescita economica del Dragone, Stato e governi locali si troverebbero a dover far fronte a introiti fiscali più modesti che in passato, e quindi a minori risorse disponibili per sostenere lo sviluppo dei consumi interni. È questo, a nostro giudizio, uno dei rischi principali a cui è esposto il progetto di transizione della Cina verso un’economia dei consumi: un importante rallentamento del ritmo di crescita condurrebbe ad un accumularsi di debito, con conseguenti problemi di stabilità finanziaria o l’eventuale necessità di ridimensionare o sospendere del tutto i programmi di incentivo ai consumi.

Riteniamo per queste ragioni che il percorso della Cina verso un’economia maggiormente incentrata sulla domanda interna dovrà per forza di cose essere lento e graduale. Proprio per evitare un eccessivo aumento del debito pubblico, nel processo di rafforzamento dello stato sociale grande attenzione sarà posta nel tutelare la stabilità finanziaria del Paese e il suo percorso di crescita economica. Si tratterà quindi di una transizione complessa, che certamente porrà problemi anche in termini di conciliazione di interessi contrastanti, e il cui completamento non potrà essere cosa di breve periodo.

Per un’economia esportatrice come l’Italia la svolta cinese verso i consumi potrebbe rivelarsi un’occasione preziosa. L’esposizione dell’export del nostro Paese verso la Cina è ancora molto modesta, con una quota inferiore al 3% del totale esportato; all’inverso, da più di dieci anni gli Stati Uniti ricoprono quote sempre maggiori sul nostro export, una situazione che sembra tuttavia destinata a mutare profondamente negli anni a venire, in conseguenza del crescente protezionismo statunitense.

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Per proteggere la nostra economia nazionale da shock negativi legati alla domanda estera, è necessaria una diversificazione delle destinazioni dell’export il più possibile vasta. L’Asia è sicuramente una delle regioni del globo tra le più promettenti – sia per via delle ancora grandi potenzialità di crescita economica, sia in conseguenza proprio della svolta cinese verso i consumi. È pur vero che la Cina, negli ultimi anni, ha dimostrato di essere non solamente un mercato di destinazione particolarmente attraente, ma anche e soprattutto un competitor di grande capacità. Ciò significa che, verosimilmente, le imprese italiane avranno da competere aspramente per aggiudicarsi quote di mercato in Cina e nell’Asia. Ma ciò non è sufficiente per mettere in ombra i vantaggi che da questa nuova apertura potranno derivare per le imprese di un Paese come l’Italia, che può vantare eccellenze in diversi settori e un brand molto forte e riconosciuto internazionalmente.



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