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Testa nella sabbia, mano al portafogli: «Competere con chi ha i dazi più alti»


Sui dazi, per ora, non è tanto importante il prezzo della sottomissione dell’Unione Europea a Trump, tutto da definire sia nelle esenzioni sul vino e altre mercanzie e al di là delle infondate promesse di comprare 750 miliardi di gas o investire 600 miliardi negli Usa. Il problema è politico e consiste nell’avere accettato il ricatto. Come in tutte le estorsioni, anche in questo caso la prossima volta sarà peggiore. Dopo avere ottenuto il 5% del Pil in spesa militare, dopo avere conquistato l’immunità fiscale per le Big Tech, Trump si presenterà con un’altra «offerta che non si può rifiutare».

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La politica dello struzzo adottata dal governo Meloni permetterà di trovare un’altra ragione per rendere «sostenibile» la prossima estorsione. Del resto, ha ingoiato tutto. Lo fanno tutti in Europa, a cominciare dalla baronessa tedesca che ha guidato la Commissione Europea su un campo da golf scozzese. Lo fanno gli altri governi, a cominciare da quello francese e tedesco che fingono di essere irritati. E pagano. Perché non dovrebbero farlo anche a Roma? Tutta Europa, e non solo Palazzo Chigi, cerca di costruire «ponti» verso Trump. A questo porta l’idea che viaggia di bocca in bocca anche in Italia: l’accordo su dazi non sarà perfetto, ma è il migliore che si potesse fare. Il realismo dei leccapiedi.

Bisognerebbe prestare più attenzione al mercantilismo primitivo che si agita tra chi sostiene che la Commissione Ue è riuscita ad evitare l’inizio della «guerra commerciale». Questa è un’imprecisione. Ieri il vicepremier ministro degli esteri Antonio Tajani ha detto che con i dazi al 15% «andremo a competere i prodotti concorrenti di paesi che hanno dazi al 25%, al 30%, al 40%, quindi paradossalmente si possono anche aprire nuovi spazi di mercato per i nostri prodotti». È esattamente questa la «guerra commerciale». È esattamente questa la «guerra commerciale» che Trump sta innescando. E che, per opportunismo, tutti saranno costretti a giocare. Si chiama capitalismo.

Il governo italiano procede con la testa sotto la sabbia e una mano al portafoglio. Anche ieri sono giunte rassicurazioni sul fatto che soccorrerà le imprese che perderanno fatturato. C’è un modo per interpretare le simulazioni sui danni da dazi che riempiono i giornali e le Tv da settimane. Sono il prodotto delle corporazioni che premono sui governi, e anche sulla Commissione Ue, per ottenere le esenzioni sui propri prodotti. Sempre che l’estortore-in-capo le conceda ed è tutto da vedere come.

Ad esempio sul vino che per ora sarà colpito da un dazio del 15%. È in corso una battaglia epocale per risparmiarlo dalla punizione di Trump. Oggi si dice che bisognerebbe difendere l’«eccellenza» del sacro liquido «made in Italy». Anzi, dovremmo commuoverci per la perdita di fatturato fino al 20% di chi invia le bottiglie sugli scaffali americani. Per Cia-Agricoltori Italiani gli Usa sono la prima piazza mondiale per l’export vitivinicolo con circa 1,9 miliardi di euro di fatturato nel 2024. Servono «indennizzi» alle imprese produttrici per contrastare l’«effetto dumping», ripianare i costi aggiuntivi della filiera distributiva e tamponare i danni aggiuntivi indotti dalla svalutazione del dollaro.

Ci sono anche i paradossi: quello del consorzio del Grana Padano. Trump era stato definito un «nemico» quando ha minacciato i dazi al 30%. Dal 7 agosto i dazi saranno al 15%. Sarebbero convenienti dato che sul buonissimo formaggio oggi ci sono dazi al 25%. Uno grosso sconto, in effetti. Un nemico un po’ più amico. Caso diverso per Illy Caffé. I dazi al 15% sono considerati difficili da «assorbire». Ciò potrebbe accelerare la «scelta strategica» di installare la produzione negli Stati Uniti. Quello che Trump vorrebbe che accadesse per molti altri.

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Sono molte le ipotesi del governo e dei suoi spin a mezzo stampa sul recupero fondi per riparare il danno provocato dall’«amico» americano. Negli ultimi tre giorni è arrivato il turno del «credito di imposta» che dovrebbe coprire il 100% di perdite delle aziende che esportano almeno il 10% delle loro produzioni verso gli Usa, spalmato in 5 anni. Prima si era parlato di distrarre una quota non spesa dei fondi del Pnrr, per incapacità del governo, 14 miliardi da dare alle imprese. C’è stato chi, come Confindustria, ha auspicato una modifica del patto di stabilità Ue com’è stato fatto per le spese militari, salvo constatare che a causa del patto di stabilità è molto difficile farlo. Le improvvisazioni fanno parte del grande gioco al quale partecipano molti comprimari.



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