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L’intelligenza artificiale soffre in azienda: manca la cultura


L’intelligenza artificiale è ormai parte del lessico quotidiano delle aziende. È nei piani strategici, nei board, nelle presentazioni di prodotto, nelle call con gli investitori. L’AI è diventata non solo una tecnologia da esplorare, ma un elemento strutturale del posizionamento competitivo.

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La centralità dell’AI nei piani aziendali

È il nuovo motore delle promesse. E, come sempre accade in questi momenti di trasformazione, quando una tecnologia acquisisce centralità, cominciano a prendere forma anche nuovi ruoli, nuove responsabilità, nuove etichette.

Negli ultimi mesi, tra i corridoi dei grandi gruppi e delle aziende più dinamiche, ha iniziato a circolare con sempre maggiore frequenza una nuova sigla: CAIO, Chief AI Officer. Un ruolo relativamente giovane, ma che ha già trovato casa nei C-level delle imprese più sensibili all’innovazione. Secondo alcune analisi recenti, quasi la metà delle aziende FTSE 100 ha già introdotto un CAIO o una figura equivalente, e più del 40% lo ha fatto solo nell’ultimo anno.

È un segnale importante: la tecnologia non è più in mano solo all’IT, ma diventa materia di governo, strategia e impatto economico. Un riconoscimento legittimo, in un contesto in cui l’AI promette – e in certi casi già produce – vantaggi tangibili in efficienza, automazione e capacità predittiva.

Il limite culturale nell’adozione dell’intelligenza artificiale

Tuttavia, in questo slancio verso il futuro, si sta trascurando un elemento fondamentale. Un elemento che non si misura in parametri tecnici, né si risolve con una piattaforma o con un team di data scientist. Sto parlando del cambiamento culturale e organizzativo. Quello che in molti stanno dimenticando, mentre inseguono “Caio”, e che io provo a raccontare con un’altra figura, volutamente simbolica, ma decisiva: Sempronio.

C’è un dato che dovrebbe farci riflettere: oltre l’80% dei progetti di intelligenza artificiale nelle aziende non raggiunge pienamente i risultati attesi. Nonostante gli investimenti, nonostante le competenze tecniche, nonostante l’accesso a modelli sempre più performanti.

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Il disallineamento tra tecnologia e organizzazione

E se andiamo a leggere le motivazioni dietro questi insuccessi, troviamo quasi sempre una parola che ritorna: disallineamento.

Disallineamento tra tecnologia e bisogni reali. Tra soluzioni e processi. Tra velocità del cambiamento tecnologico e capacità dell’organizzazione di assorbirlo. È come se l’AI venisse installata – ma non adottata. Calata dall’alto, ma non integrata nel flusso quotidiano delle decisioni, delle relazioni, dei ruoli.

Succede perché si parte dal modello, non dal contesto. Si parte dallo strumento, senza aver definito davvero la domanda. E così l’AI resta confinata in un perimetro tecnico, o peggio ancora, sperimentale. Una prova. Un laboratorio. Non una leva trasformativa.

E il punto è proprio questo: l’intelligenza artificiale è una tecnologia trasformativa solo se l’organizzazione è in grado di trasformarsi con lei. Ma per farlo, serve qualcuno che lavori sulla cultura, sulla governance, sulla fiducia. E qui, il CAIO – per quanto bravo – non basta.

Sempronio come interprete del cambiamento organizzativo

Nel detto popolare “Tizio, Caio e Sempronio”, i tre nomi rappresentano persone qualsiasi. Ma in questo caso voglio caricarli di significato: Caio è la tecnologia, Sempronio è l’organizzazione. Caio sa scrivere modelli, ottimizzare parametri, integrare API. Ma è Sempronio che conosce le paure dei team, le rigidità dei processi, i silenzi nelle riunioni, le frizioni tra reparti. È lui che lavora per far atterrare davvero l’innovazione nel tessuto aziendale.

Sempronio non è per forza un titolo formale. Potrebbe essere un direttore HR illuminato, un responsabile della formazione, un transformation officer, o semplicemente una task force interfunzionale. L’importante è che esista una funzione chiara, riconosciuta, che abbia il mandato – e il tempo – di accompagnare il cambiamento.

Perché introdurre l’AI in azienda significa cambiare molte cose. Cambiano i flussi decisionali, cambiano le metriche, cambiano i ruoli. E soprattutto, cambiano le aspettative delle persone. Chi teme di essere sostituito. Chi non si fida del modello. Chi non capisce cosa sta succedendo, ma lo subisce.

Sempronio è quello che si fa queste domande: “Abbiamo spiegato abbastanza bene cosa fa questo sistema?” “Le persone hanno gli strumenti per interagirci?” “Ci sono resistenze silenziose che rischiano di bloccare tutto?”

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È lui che traduce la complessità tecnica in linguaggio organizzativo. Che prepara la cultura aziendale a muoversi dentro una nuova grammatica, dove la collaborazione con l’AI diventa normale, quotidiana, produttiva.

I prerequisiti culturali per l’adozione dell’intelligenza artificiale

Quando si parla di adozione dell’AI, il rischio è di concentrarsi solo sui pezzi visibili: la scelta del modello, la qualità dei dati, l’infrastruttura cloud. Tutti aspetti fondamentali, sia chiaro. Ma sotto questi pilastri tecnologici, ne servono altri – meno visibili, ma altrettanto determinanti.

  • Una visione condivisa, capace di raccontare l’AI non come un obbligo, ma come un’opportunità concreta.
  • Una cultura aperta al cambiamento, che sappia affrontare l’errore come occasione di apprendimento e non come fallimento.
  • Un investimento serio nella formazione, non solo per i tecnici, ma per tutti. Perché l’AI riguarda tutti.
  • Una governance etica, che garantisca trasparenza, equità e responsabilità.
  • Un approccio partecipativo, in cui le persone siano coinvolte fin dall’inizio e possano contribuire, non solo eseguire.

Tutti ambiti in cui Sempronio è protagonista. E dove l’assenza di una figura come lui può rendere sterile anche il miglior progetto AI.

I rischi dell’adozione tecnica senza preparazione umana

Ho visto aziende che hanno investito milioni in soluzioni AI e che, dopo mesi, si sono accorte che nessuno le stava usando. Non per malafede, ma per impreparazione. Ho visto dashboard potentissime ignorate perché non c’era tempo per formare chi avrebbe dovuto interpretarle. Ho visto modelli rifiutati perché non spiegabili, o perché percepiti come imposti.

Ecco perché serve Sempronio. Non è solo un tema di change management, è una questione di consapevolezza organizzativa. L’AI non entra in azienda come un CRM. L’AI cambia il modo in cui decidiamo, pensiamo, comunichiamo. E ogni volta che qualcosa cambia a quel livello, serve accompagnamento.

Serve fiducia. E la fiducia si costruisce, non si installa.

Caio e Sempronio: un equilibrio necessario per l’adozione AI

Alla fine, il messaggio è semplice. E anche se l’ho detto con ironia, è un invito molto serio: non basta nominare un CAIO per essere pronti all’AI. Serve anche capire chi, nella propria organizzazione, può interpretare il ruolo di Sempronio. Serve bilanciare tecnica e cultura, codice e comportamento, infrastruttura e significato.

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Nel prossimo incontro strategico, accanto alla domanda: “Qual è la nostra strategia AI?”
Provate ad aggiungerne un’altra “Chi sta lavorando davvero per renderla adottabile?”

Perché tra un modello che funziona e un modello che cambia davvero l’azienda, c’è di mezzo un mondo. Un mondo che parla di persone, di comprensione, di tempo, di ascolto.

Un mondo che oggi chiamiamo, con rispetto e una punta di ironia, Sempronio.



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