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L’Ue tratta sulle esenzioni e decide sui controdazi – JUORNO.it / IL GIORNO


Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha iniziato la sua seconda amministrazione con mano pesante, e non solo nei confronti di Pechino o Bruxelles. Nel mirino stavolta ci sono gli organi economici americani, compresa la Federal Reserve. L’ultimo episodio risale a venerdì scorso: Erika McEntarfer, responsabile del Bureau of Labor Statistics, è stata licenziata con l’accusa — mai dimostrata — di aver manipolato i dati sull’occupazione per fini politici.

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Un’azione che richiama alla mente pratiche di regimi autoritari, più che della prima economia mondiale. E che si inserisce in una strategia più ampia: Trump sta cercando da settimane un pretesto per silurare Jay Powell, presidente della Federal Reserve, usando come grimaldello i costi di ristrutturazione della sede dell’istituto centrale. Un modus operandi che evoca la repressione politica vista in Cina, Russia o Argentina, ma che ora scuote Washington.

I dati sembrano buoni, ma sotto la superficie c’è tensione

A un primo sguardo, l’economia americana appare solida. Nel secondo trimestre del 2025 il PIL è cresciuto del 3%, con un’inflazione sui consumi personali contenuta al 2,6%. Il temuto effetto dei dazi imposti da Trump a partire da aprile, il più grande aumento tariffario dai tempi della legge Smoot-Hawley del 1930, non ha ancora generato un’ondata inflazionistica.

Ma i numeri raccontano solo parte della storia. L’assenza di rincari evidenti è legata soprattutto all’anticipo delle importazioni, avvenuto tra gennaio e marzo. In quei mesi gli operatori americani hanno acquistato oltre 200 miliardi di dollari in più di merci estere rispetto allo stesso periodo del 2024, riempiendo magazzini prima dell’entrata in vigore dei dazi.

L’11 settembre sarà il giorno della verità

Le scorte stanno però finendo e il test decisivo sarà l’11 settembre, quando uscirà il dato sull’inflazione di agosto. I listini potrebbero salire, riflettendo finalmente l’effetto reale delle nuove tariffe doganali.

Intanto gli investimenti privati delle imprese tra aprile e giugno sono crollati di 260 miliardi di dollari, un calo pari a un quarto rispetto al trimestre precedente. È un segnale allarmante, normalmente associato alle fasi pre-recessive. Anche la debolezza nella creazione di nuovi posti di lavoro rientra in questo quadro, ed è costata il posto proprio a McEntarfer, la “messaggera” dei dati sgraditi al presidente.

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L’America cresce, ma solo in apparenza

Il ritmo di crescita del PIL, così impressionante, è in parte gonfiato dalla contrazione delle importazioni — che in termini statistici fanno aumentare il prodotto interno lordo. Ma dietro i numeri positivi si cela una crescente nevrosi nei mercati e nelle imprese: l’imprevedibilità delle decisioni di Trump sta comprimendo la fiducia e frenando l’iniziativa economica.

A tenere alta la bandiera della prosperità restano le sette Big Tech americane — Nvidia, Apple, Meta, Microsoft, Amazon, Alphabet e Broadcom — che investono cifre colossali nell’intelligenza artificiale e da sole valgono oltre un terzo dell’indice S&P 500. Ma la loro ricchezza non è redistribuita: solo una minoranza, benestante e ristretta, ne beneficia. L’1 per mille più ricco degli americani possiede 23 mila miliardi di dollari, cinque volte quanto detiene la metà più povera della popolazione.

Trump tra forza e fragilità

Le mosse del presidente possono apparire da leader sicuro di sé. Oppure, al contrario, da uomo consapevole che le sue scelte stanno generando tensioni profonde. Il parallelismo con la Cina del 2015 non è casuale: come Pechino cacciò il presidente della Borsa di Shenzhen dopo un crollo del mercato, Trump sembra voler prevenire ogni narrazione negativa licenziando i custodi della verità statistica.

Dietro l’apparente solidità dell’economia USA, qualcosa scricchiola. E se il presidente continuerà a trattare dati, istituzioni e organismi indipendenti come fossero strumenti della sua propaganda, l’America rischia di scivolare verso una crisi di legittimità istituzionale ben più profonda di una semplice flessione economica.



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