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Dazi, l’accordo preoccupa: «Ma alcuni settori sono stati tutelati»


Export Il 71% delle imprese non è soddisfatto dalla firma tra Usa e Ue Rossi, direttore Promos: «Salvaguardati agroalimentare e manifattura»

Sono numerose le incognite che restano aperte anche dopo la firma, nella notte di venerdì scorso, dell’ordine esecutivo con cui il presidente statunitense Donald Trump ha imposto nuovi dazi a Stati con cui ha chiuso accordi commerciali o ha stretto un’intesa come quella raggiunta la scorsa settimana in Scozia con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen.

Verso l’Unione Europea l’ordine esecutivo conferma l’imposizione di una tariffa al 15% su gran parte di merci vendute agli Stati Uniti con applicazione dal 7 agosto (anziché dall’1, come annunciato inizialmente), in un accordo che prevede da parte dell’Ue l’acquisto di energia dagli Usa per 750 miliardi, oltre 600 miliardi in investimenti una cifra imprecisata nell’acquisto di armi.

Le nuove tariffe vanno dal 10% per la Gran Bretagna al dazio punitivo del 35% per il Canada (dal 25%), fino al 39% per la Svizzera e al 41% per la Siria.

Per quanto riguarda l’Unione Europea non è chiaro se la web tax sia sospesa o abbandonata e quali saranno, se ce ne saranno, le nuove esenzioni visto che l’intesa di principio raggiunta in Scozia non è vincolante ma solo un punto di partenza per nuove negoziazioni. Intanto, se la Germania annuncia nuovi danni alla sua economia per effetto dei dazi anche le imprese lariane legate all’economia tedesca si preparano ai contraccolpi.

Ne parliamo con Giovanni Rossi, direttore generale di Promos Italia.

Il cancelliere tedesco Merz ha detto che il nuovo accordo Ue-Usa sui dazi porterà “danni sostanziali” per la Germania, oltre che per l’Europa e gli Stati Uniti. L’Italia oltre ad essere un rilevante esportatore negli Usa è anche una grande fornitrice della Germania. Quanto la prospettiva indicata da Merz deve preoccupare le nostre imprese?

In realtà, Merz qualche ora dopo ha corretto un po’ il tiro, tuttavia, le sue parole riflettono una preoccupazione reale: l’accordo Ue-Usa potrebbe ridurre la competitività di alcuni settori europei, in particolare per la Germania, che ha un forte export verso gli Stati Uniti. Dobbiamo considerare che il nostro Paese è il secondo esportatore europeo verso gli Usa, con 65 miliardi di euro nel 2024 e una crescita del 12% nel primo trimestre 2025 (2 miliardi in più rispetto al primo trimestre dello scorso anno), e che i settori chiave come macchinari, farmaceutica, agroalimentare e moda sono direttamente esposti.

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Inoltre, una parte significativa della nostra economia alimenta la catena del valore tedesca con forniture di componentistica e meccanica, quindi, un rallentamento della Germania avrebbe inevitabili effetti indiretti sul nostro export.

Nessuna prospettiva positiva, dunque?

Tuttavia, vi sono elementi che invitano all’ottimismo: l’Europa ha ottenuto condizioni migliori rispetto ad altre aree del mondo, il che significa che la minaccia esiste ma lo scenario è meno complesso di qualche settimana fa.

Detto ciò, la sfida è reale, ma il Made in Italy ha un vantaggio competitivo fondato su qualità e innovazione; con strategie mirate, come il rafforzamento dei contratti in dollari, la ricerca di nicchie ad alto valore aggiunto e la diversificazione dei mercati di destinazione, l’Italia può affrontare questa fase complessa con maggiori risorse rispetto ad altri Paesi.

Che sentiment sta raccogliendo Promos dalle imprese circa il nuovo accordo?

La nostra recente indagine su imprese italiane esportatrici evidenzia che il 71% non si dichiara soddisfatto dell’accordo e il 77% non nutre particolare fiducia nell’azione negoziale dell’Unione Europea. Quasi la metà pensa di modificare il proprio approccio con gli Stati Uniti, mentre oltre il 58% teme effetti negativi dall’andamento del cambio euro-dollaro. Nonostante queste fisiologiche preoccupazioni, ritengo che l’accordo abbia contenuto l’impatto e preservato spazi di competitività nei settori strategici come agroalimentare, farmaceutica e manifattura. Va detto che le imprese non parlano di ritirarsi dal mercato americano, ma di adattare strategie, confermando una volontà di restare protagoniste negli Usa così come in nuovi mercati di destinazione che possono diventare ancora più interessanti a fronte di questa situazione.

Un accordo con due versioni, in due documenti diversi di Ue e Usa. Che impressione fa?

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Il fatto che l’accordo Ue-Usa esista in due versioni distinte, una redatta dall’Unione Europea e l’altra dagli Stati Uniti, inevitabilmente suscita perplessità. A prima vista, sembra un segnale di fragilità politica, come se il compromesso raggiunto non fosse del tutto solido o condiviso.

Quanto potrà incidere l’incertezza sulla pianificazione del lavoro delle imprese?

Questa asimmetria può generare dubbi interpretativi e margini di ambiguità, soprattutto per le imprese che devono pianificare strategie su orizzonti medio-lunghi.

Non è raro, in contesti di negoziato internazionale, che ciascuna parte dia enfasi a elementi che considera prioritari per rassicurare i propri interlocutori interni, non è un caso – infatti – che sia in corso una negoziazione su prodotti e settori, anche se è ragionevole pensare che alla fine l’accordo verrà firmato com’è stato annunciato.

Tuttavia, questa mancanza di uniformità non implica necessariamente il fallimento dell’intesa: al contrario, dimostra la complessità delle relazioni commerciali globali in un momento di tensioni geopolitiche e protezionistiche. Dal punto di vista operativo, ciò che conta è che entrambe le versioni convergano sugli elementi sostanziali, ovvero il mantenimento di canali aperti per il commercio transatlantico e la riduzione del rischio di escalation tariffaria.

Per le imprese italiane, questo significa che – pur in un quadro imperfetto – si evitano scenari peggiori come dazi generalizzati o barriere non tariffarie più stringenti.

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In altre parole, la cornice attuale non va letta come un segnale di instabilità immediata, ma come uno spazio in cui l’Europa ha saputo difendere interessi strategici, preservando l’accesso a un mercato chiave.

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