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La ricetta di Tajani per rispondere ai dazi è poco solida


I tassi di interesse rappresentano il costo del denaro, cioè la somma aggiuntiva che siamo disposti a pagare per poter ottenere subito una certa quantità di fondi. Facciamo un esempio: se un prestito di un anno da 100 euro prevede interessi pari a 10 euro, significa che il tasso di interesse è del 10 per cento, poiché la cifra prestata dovrà essere restituita aggiungendo il 10 per cento al valore iniziale. Al momento, il tasso sui depositi della BCE, tra quelli considerati nel calcolo di tutti gli altri tassi, è al 2 per cento. Dopo aver raggiunto il picco del 4 per cento per contrastare l’inflazione nel settembre 2023, il costo del denaro è stato progressivamente abbassato a partire da giugno 2024, fino per l’appunto al 2 per cento di oggi.

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Tutti i tassi di interesse applicati ai prestiti dipendono – in misura maggiore o minore – da un parametro di riferimento: il tasso fissato dalla banca centrale competente, che per noi italiani è la BCE. La banca centrale è l’istituzione che “stampa” la moneta e ne regola la quantità in circolazione. Se i tassi salgono, significa che la banca centrale vuole ridurre la quantità di denaro disponibile; se invece li abbassa, l’obiettivo è l’opposto, cioè aumentare la liquidità.

Ma perché è utile modificare la quantità di moneta? Perché se la disponibilità di denaro è elevata, le persone tenderanno a spendere con più facilità. Al contrario, se la moneta è scarsa, la propensione a spendere e, soprattutto, a investire sarà più bassa. Quando la banca centrale ritiene che l’economia sia in difficoltà, sceglie dunque di immettere più moneta in circolazione, “vendendola” a un prezzo più basso alle banche. In pratica, le banche ottengono fondi chiedendoli in prestito direttamente alla banca centrale, poniamo al 2 per cento, e utilizzano poi quei fondi per erogare mutui e finanziamenti ai cittadini, per esempio al 3 per cento in media, così da guadagnare sul cosiddetto “margine di interesse”. Per esempio, secondo la Federazione autonoma bancari italiani (FABI), a maggio 2025 i tassi medi applicati dalle banche sui mutui in Italia erano al 3,58 per cento, mentre i tassi offerti dalla BCE erano al 2,25 per cento, permettendo un margine di interesse di poco più di 1,3 punti percentuali.

Se le banche puntano a guadagnare un punto percentuale dai prestiti (come nell’esempio appena visto), la banca centrale ha quindi la possibilità di stimolare o frenare l’economia proprio attraverso il livello dei tassi. Immaginiamo che la BCE voglia favorire l’acquisto di case o automobili, così da spingere la produzione e le vendite. In quel caso deciderà di abbassare i tassi: chi prima riteneva troppo costoso indebitarsi con un tasso del 3 per cento, potrebbe ora convincersi a chiedere un prestito a condizioni più vantaggiose. Il suo acquisto stimolerà a sua volta il venditore, che grazie all’aumento del fatturato avrà più risorse da spendere, innescando un circolo virtuoso.

A una politica di riduzione dei tassi si possono affiancare anche misure “non convenzionali”, come il Quantitative easing (Qe) citato da Tajani. Il Qe è stato introdotto nell’Unione europea nel 2015 per stimolare ulteriormente l’economia. In realtà, il mandato della BCE è garantire la stabilità dei prezzi e non direttamente la crescita, ma le due dimensioni sono collegate. Questa decisione straordinaria era nata dal fatto che, neppure con tassi a zero, si riusciva a rilanciare davvero il Prodotto interno lordo (PIL) né ad aumentare l’inflazione fino a poco sotto il 2 per cento, che è l’obiettivo ufficiale della BCE. Perciò l’allora presidente della BCE Mario Draghi decise di iniziare ad acquistare direttamente alcuni titoli sui mercati finanziari, così da mantenere bassi non solo i tassi fissati dalla banca centrale, ma anche quelli “secondari”, cioè applicati da banche, imprese e Stati. Grazie all’aumento della domanda, chi emetteva i titoli poteva finanziarsi offrendo un interesse più basso, alleggerendo così le proprie finanze. Nella proposta di Tajani, dunque, il Quantitative easing non servirebbe tanto a mettere direttamente fondi nei conti dello Stato, quanto più a rendere meno costoso l’indebitamento, in modo da liberare risorse che finirebbero altrimenti nella spesa per interessi. Al momento, l’Italia è il Paese che spende di più in interessi sul debito in percentuale al PIL in tutta l’Unione europea: ridurre il costo dell’indebitamento e, di conseguenza, le spese sul debito, renderebbe effettivamente disponibili altri fondi per il settore pubblico, per esempio per la sanità o per la difesa, come sostiene Tajani.

In ogni caso, il Qe resta una misura eccezionale: era stato istituito dopo anni di discussioni (negli Stati Uniti la Federal Reserve lo aveva adottato già dal 2008) e dovrebbe essere utilizzato soltanto quando i tassi sono già a zero e i tagli tradizionali non bastano a ottenere risultati concreti.

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