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Licenziamenti nelle piccole imprese: via il tetto delle sei mensilità


All’indomani della sentenza n. 128 del 2024, con cui la Corte costituzionale dichiarava illegittimo l’art. 3, comma 2 del D.lgs. n. 23/2015 — nella parte in cui escludeva la possibilità di reintegra per i lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo, qualora fosse accertata l’inesistenza del fatto alla base del licenziamento — la Corte è tornata a pronunciarsi sul Jobs Act con un nuovo rilevante intervento.  

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Con la sentenza n. 118 del 2025, infatti, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 1, nella parte in cui prevede un tetto massimo di sei mensilità per il risarcimento del danno in caso di licenziamento illegittimo intimato da datori di lavoro di aziende che non raggiungono i limiti dimensionali previsti dall’art. 18, commi 8 e 9 dello Statuto dei Lavoratori, ovvero che abbiano un organico inferiore a 15 dipendenti presso un’unità produttiva.  

Fino a questo momento, l’articolo 9 del Jobs Act stabiliva che, nei casi di licenziamento illegittimo avvenuti in aziende che non raggiungevano i requisiti dimensionali previsti, le indennità risarcitorie previste dagli articoli 3, 4 e 6 dovevano essere ridotte della metà. Inoltre, tali indennità non potevano in ogni caso superare il tetto massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio maturato. 

In sostanza, la Corte ha ritenuto che porre un limite rigido al risarcimento per i lavoratori impiegati presso datori di lavoro con meno di 15 dipendenti vada in contrasto con i principi costituzionali. 

Imprese “sottosoglia”, perché l’art. 9 del Jobs Act sarebbe incostituzionale? 

In primis, la disposizione del Jobs Act si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza fissato all’art. 3, commi primo e secondo della Costituzione, nella parte in cui determina un’ingiustificata disparità di trattamento tra lavoratori dipendenti di datori di lavoro di imprese con più di 15 occupati, che a seconda della gravità del vizio dell’atto di licenziamento potrebbero fruire sia della tutela reintegratoria che di quella indennitaria quantificabile fino alla misura di 36 mensilità e i lavoratori dipendenti di datori di lavoro di imprese “sottosoglia” che sarebbero destinatari di una tutela indennitaria ridottissima, da tre a sei mensilità. 

In tal modo, pertanto, verrebbero trattate in modo sostanzialmente identico situazioni diverse, senza permettere al giudice di modulare la sanzione in base alla gravità del licenziamento. Ma non solo: viene anche violato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea, che garantisce ai lavoratori licenziati senza giusta causa il diritto a una riparazione adeguata.  

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“Una tutela standardizzata che non consente la personalizzazione del risarcimento” 

Questi i termini utilizzati all’interno della sentenza in trattazione per descrivere le motivazioni della censura dell’art. 9 del Jobs Act.  

Se, come la stessa Corte ha più volte sottolineato, l’adozione di un meccanismo risarcitorio al posto della reintegrazione non è di per sé incostituzionale, è però necessario che tale strumento sia effettivo e ragionevolmente calibrato sulle peculiarità della vicenda.   

Un tetto risarcitorio fissato a sei mensilità non consente di personalizzare la tutela monetaria rispetto al danno subito dal lavoratore, diversamente, sembrerebbe imposto un tetto di sei mensilità anche nelle ipotesi di licenziamenti viziati da più gravi forme di illegittimità.  

La dichiarazione di incostituzionalità 

Alla stregua di quanto detto, dunque, la tutela del lavoratore da un licenziamento illegittimo, a parere della Corte, non può fondare la sua esistenza sull’esclusivo criterio delle dimensioni occupazionali del datore di lavoro, trattandosi, tra all’altro, di un elemento esterno al rapporto di lavoro che, ad oggi, non determina più, di per sé, la forza economica di un’azienda. Non è più tollerabile che la dimensione aziendale determini, in modo rigido e indiscriminato, una riduzione automatica delle garanzie a presidio della libertà e della dignità del lavoratore, specialmente in una fase così delicata come quella che segue un licenziamento.  

Certamente, la sentenza n. 118 del 2025 segnerà un punto di svolta nel sistema delle tutele contro i provvedimenti espulsivi illegittimi, e in assenza di un intervento del legislatore, che da tempo era stato sollecitato dalla stessa Corte, il giudice costituzionale è intervenuto direttamente rimuovendo un limite alla stabilità occupazionale.  

Resta ora da comprendere se tale pronuncia darà impulso a una riforma più organica del sistema sanzionatorio in materia di licenziamenti, che tenga conto delle esigenze delle imprese senza sacrificare in modo irragionevole i diritti dei lavoratori.  

In ogni caso, la decisione rappresenta un richiamo forte alla centralità del lavoro nella nostra Costituzione, anche, e forse soprattutto, laddove le tutele risultano più deboli.  

Valeria Cappellano
Antonio Chiappinelli
La Rocca e Associati S.p.A.

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