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Fini e rischi del vertice in Alaska per Usa, Russia, Ucraina e Ue


Analisi e scenari sul vertice in Alaska il prossimo 15 agosto fra Trump e Putin. L’approfondimento di Polillo

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Il 15 agosto, quando Donald Trump incontrerà Vladimir Putin, segnerà anche l’inizio di una nuova era? La domanda è retorica ma rende l’idea. Se le intese tra i due diverranno un diktat nei confronti di tutti gli altri Paesi, Ucraina in testa, sarà la plastica dimostrazione che il mondo di Francis Fukuyama – quello della “fine della storia” – è morto, subito dopo aver emesso il primo vagito.

Avrebbe quindi ragione Marat Bashirov, il politologo amico di Vladimir Putin, secondo cui in questa nuova era “conta solo la forza”. Tutto il resto è solo un chiacchiericcio che serve a distrarre, disarmare coloro che vorrebbero poter agire secondo codici etici o comunque in grado di prescindere dal tornaconto immediato del pagamento in contanti.

Putin ha da tempo in testa questo obiettivo. Il ricordo della grandezza perduta, che fu lo stimma del periodo imperiale e del successivo tripudio comunista, lo ha assillato fin da quando era un oscuro membro del KGB. Ed oggi, dopo tre anni di guerra, il conto di migliaia di morti ed un numero ancora più imprecisato di feriti, ha la soddisfazione di sedersi di fronte al più forte Paese del Mondo e negoziare le sue condizioni. Il tutto per ritornare in possesso di un fazzoletto di terra che non aggiungerà nulla alle sterminate pianure, che compongono l’attuale territorio di Santa Madre Russia.

Follie di tutte le guerre di conquista, come sarà anche per Israele, se Netanyahu dovesse decidere di occupare Gaza con fini annessionistici. Ma quella di Putin è qualcosa di più. È il pretesto per poter riaffermare la sua politica di potenza, per militarizzare l’intera economia del suo Paese, per testare nuove armi dopo aver sconfessato precedenti accordi sulla loro limitazione. Alcuni, anche in Italia, fanno finta di non vedere. Di non cogliere il significato profondo di queste scelte e la strategia che le sorregge. Ma il gioco è fin troppo scoperto. Sarà un nucleo ristretto a governare il mondo nella nuova era. E la Russia ci sarà. Insieme all’America e la Cina, ma non all’Europa.

Impressionante la simmetria con le politiche di Donald Trump. Del tutto inconsistenti le teorie di quest’ultimo sulle cause reali della crisi americana. E di conseguenza sui rimedi. Come se da una diagnosi sbagliata potesse nascere una terapia miracolosa. Anche in questo caso il principio seguito è stato dettato dal lato oscuro della forza: quell’energia che se non guidata dalla ragione produce solo piccoli e grandi disastri. Non è la prima volta che questo accade nella lunga storia americana. Agli inizi del ‘900, correva l’anno 1917, era stato il senatore Reed Smoot, presidente della Commissione finanze della Camera alta, a sostenere che i dazi non solo erano necessari, ma belli. Per fare uscire l’America da una brutta recessione.

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La sua fu una lunga battaglia che si concluse con il varo dello Smoot-Hawley Tariff Act, (giugno 1930), poi ratificato dall’allora presidente Herbert Hoover, che impose dazi fino al 60% su oltre 20 mila prodotti stranieri, in alcuni casi quadruplicandoli. La reazione degli altri Paesi, (soprattutto Canada, Francia, Impero britannico e Germania), com’era facile imaginare, non si fece attendere. Le relative contromisure portarono ad una caduta rovinosa del commercio internazionale e con esso all’avvitamento della crisi – quella del 1929 – sebbene quest’ultima avesse avuto origini diverse. Quando, qualche anno dopo, con il nuovo presidente (Franklin Delano Roosevelt) si tirarono le somme, si poté osservare che, grazie a quelle politiche, la disoccupazione in America era passata dall’8 al 25%.

Quale sarà allora il costo della politica di Trump? Troppo presto per dirlo. La lenta e costante svalutazione del dollaro, tuttavia, non lascia tranquilli. Il Presidente ostenta toni trionfalistici sulle maggiori entrate che deriverebbero dai dazi, ma è difficile dividere il grano dal loglio. Vedere dove finisce la propaganda e affiora la realtà. Finora la teoria, checché né dica Stephen Miran, l’economista di regime che Trump ha recentemente nominato nel Board della FED, è più che scettica. Naturalmente può sbagliare. Ma in termini probabilistici è vero il contrario.

La Cina, a sua volta, si limita a guardare ed operare in silenzio lungo una strategia da tempo definita. Non ha bisogno di mostrare i muscoli più del necessario. Portatrice di un grande soft power naviga nelle acque internazionali, come se niente fosse. Vicina a Putin, ma capace anche di mantenere buoni rapporti con Trump, o di reagire duramente, come si è visto, a proposito dei dazi. Nel frattempo cerca di ridurre le distanze che, sul piano militare, la dividono dalle due altre super potenze. Mentre le sue grandi imprese cercano di estendere la logistica necessaria (si veda la vicenda del Canale di Panama) per consentirle sempre più di essere l’hub industriale del Pianeta.

In questo nuovo scenario c’è solo un grande assente. Ed è l’Europa. Alla quale sfugge sempre più la terra sotto i piedi. Le sue reazioni sono meno sonnolenti rispetto il passato, ma non ancora in sintonia con la velocità dei cambiamenti in atto. Non è questione di volontà dei singoli stati, ma di un meccanismo talmente farraginoso da portare alla paralisi operativa. Quel gigante burocratico a 27 teste non ce la farà mai a competere con un’America che sembra poter fare a meno del suo sistema di check and balance o di una Russia tornata ad essere l’autocrazia pre rivoluzionaria.

Che fare allora? Nel vortice della crisi le forze più dinamiche del Continente si sono ritrovate nella cosiddetta alleanza dei volenterosi. Non sarà certo il migliore dei mondi possibili, ma può essere l’inizio di una possibile rigenerazione. La leva a cui aggrapparsi prima di essere risucchiati nelle sabbie mobili dei veti contrapposti, degli opportunismi di chi non vuol vedere il pericolo che circonda il Vecchio Continente, o ha dimenticato gli antichi episodi che, in Ungheria o a Praga, segnarono la storia del ‘900. Andare, quindi oltre, gli insegnamenti di Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Jean Monnet, Robert Schuman o Paul-Henri Spaak non significa commettere una sorta di parricidio. Ma adeguare il loro insegnamento alla nuova era che si sta aprendo di fronte ai nostri occhi.



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