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Le big tech e la nuova età delle infrastrutture: più di 100 miliardi di Meta, Microsoft, Amazon e Google per i data center


Meta, Microsoft, Amazon e Google investono oltre 100 miliardi di dollari in data center, superando per impatto sul Pil i consumi delle famiglie Usa. L’AI spinge la rivoluzione infrastrutturale, tra sfida competitiva e rischio bolla

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Prosegue la corsa dei giganti tecnologici agli investimenti in infrastrutture informatiche. Solo nell’ultimo trimestre, rileva il Wall Street Journal, Meta, Microsoft, Amazon e Google hanno speso collettivamente più di cento miliardi di dollari in beni materiali – edifici, chip, attrezzature. Quasi tutti destinati alla costruzione di nuovi data center.

Per la prima volta nella storia americana, commenta Fortune, gli investimenti in infrastrutture hanno avuto un impatto sulla crescita del Pil superiore a quello dei consumi delle famiglie, che tradizionalmente rappresentano il motore principale dell’economia statunitense.

L’effetto a livello macro è stato equivalente a quello di un vero e proprio programma di stimolo all’economia. Senza il quale, considerati i venti contrari provenienti dal rialzo dei dazi, dal modesto andamento dell’occupazione e dal ristagno dei consumi, gli Usa avrebbero probabilmente corso il rischio di entrare in recessione.

Big Data e AI: La Spinta Dietro gli Investimenti

La corsa agli investimenti in data center è alimentata dall’esplosione dei big data, l’enorme flusso di informazioni generato ogni giorno dalla nostra vita digitale: ricerche online, acquisti e-commerce, video in streaming, foto sui social, dati raccolti da smartphone e dispositivi connessi. Una marea destinata a crescere, accelerata dalla digitalizzazione post-Covid (dal lavoro da remoto alla didattica online), dall’espansione dell’Internet of Things, che spazia dall’industria 4.0 alle auto connesse fino alla domotica, e dalla migrazione massiccia verso il cloud. Dal 2023, l’arrivo dell’intelligenza artificiale generativa ha impresso un’ulteriore accelerazione, moltiplicando la domanda di capacità di calcolo e trasformando una tendenza già in atto in una vera rivoluzione infrastrutturale.

Quando l’hardware diventa strategico

Le Big Tech stanno investendo soprattutto in hyperscale data center, strutture informatiche di dimensioni enormi progettate per supportare applicazioni che richiedono grandi capacità computazionali e di storage, incluse naturalmente le elaborazioni di algoritmi di intelligenza artificiale. Le Big Tech controllano già almeno il 50% di questa capacità attraverso proprietà dirette, contratti di leasing a lungo termine e partnership strategiche.

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Dopo decenni in cui l’attività a maggiore valore aggiunto era rappresentata dal software mentre l’hardware veniva considerato una componente necessaria ma non strategica, questa improvvisa inversione di tendenza appare sorprendente.

La ragione sta non solo nella dimensione raggiunta dai dati, ma nel fatto che essi rappresentano ormai l’ingrediente fondamentale della nuova competizione digitale. Se fino a poco tempo fa servivano soprattutto a profilare gli utenti per scopi pubblicitari, oggi sono diventati le “terre rare” dell’industria digitale. Il loro impiego si è esteso a tutti i settori dell’economia e dei servizi, rappresentando la materia prima indispensabile per creare nuovi prodotti digitali. In questa corsa ai dati l’AI sta giocando un ruolo importante: senza di essi non si possono addestrare i grandi modelli linguistici né generare applicazioni verticali.

Ecco perché possedere data center e infrastrutture dedicate è oggi una vera arma competitiva. Chip su misura come i TPU di Google, server vicini agli utenti, supply chain sotto controllo: ogni scelta riduce latenza, aumenta le performance e migliora l’esperienza in tempo reale. Integrare le supply chain protegge la proprietà intellettuale e mette al riparo da strozzature geopolitiche o da picchi nei prezzi dei componenti. In un settore dove millisecondi di ritardo e interruzioni di fornitura possono valere miliardi, ogni elemento di questa catena diventa un’arma competitiva: chi controlla la filiera comanda il gioco.

Il nuovo business model mette alla prova Wall Street

Gli investitori intanto continuano a valutare i giganti tecnologici come se i loro business, divenuti ad alta intensità di capitali, siano profittevoli quanto il modello precedente. Ma sarà davvero così?

Per anni la finanza ha amato le Big Tech perché erano “asset-light”. Hanno prosperato su software e pubblicità, beneficiando degli effetti di rete che attiravano gli utenti su Google piuttosto che su Facebook o altre piattaforme social. La scalabilità del digitale ha consentito margini altissimi, capitale circolante minimo, crescita dei ricavi con costi marginali irrisori.

È grazie a questo modello che il free cash flow è cresciuto di pari passo con gli utili netti, creando valore per gli azionisti in modo apparentemente inarrestabile.

Il “winner-takes-all” a cui i colossi del web ci avevano abituato appare ora più offuscato. L’efficienza operativa, il rigido controllo dei costi e l’ottimizzazione delle infrastrutture diventano i fattori chiave per operare con successo in questa nuova fase.

Rispetto a un’epoca in cui una startup poteva scalzare un gigante con un’idea brillante e poco capitale, oggi la competizione si gioca su chi dispone di più risorse per investimenti di lungo periodo.

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La domanda cruciale è se queste aziende, ora ingaggiate in una concorrenza con regole del gioco così diverse dal passato, saranno capaci di essere ugualmente competitive.

È il ritorno alla stabilità dell’industria tradizionale, dove i vantaggi competitivi si costruiscono lentamente.

Investimento visionario o bolla speculativa?

La traiettoria intrapresa dai grandi giganti digitali suscita interrogativi che dividono gli analisti in due campi distinti.

C’è chi ritiene che l’enorme sviluppo dell’economia digitale, finora prevalentemente rivolta all’intrattenimento piuttosto che all’industria e alla produzione, abbia raggiunto un limite strutturale. Solo nuove infrastrutture tecnologiche, capaci di gestire ed elaborare i big data su scala industriale, potranno superare questo collo di bottiglia.

Da questo punto di vista, la trasformazione in corso appare inevitabile: è finita un’epoca di guadagni relativamente facili. Se i colossi tecnologici vorranno continuare la loro crescita, diverranno indispensabili investimenti ingenti, forse troppo a lungo rinviati.

Altri analisti vedono la situazione diversamente. Questa trasformazione, pur necessaria, è stata accelerata in modo inatteso dall’avvento dell’AI generativa. Se questa ipotesi si rivelasse corretta, potremmo trovarci di fronte a un azzardo speculativo.

Alcuni dati supportano questa preoccupazione: OpenAI e Anthropic, i due principali sviluppatori di grandi modelli linguistici, pur crescendo rapidamente, stanno ancora perdendo denaro. Nonostante l’evidente potenziale economico dell’AI, il ritorno finanziario rimane incerto.

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Il parallelo con la bolla dot-com tra fine anni ’90 e inizio 2000 è inevitabile: gli investitori intuirono correttamente che internet avrebbe guidato un boom della produttività, ma sbagliarono drasticamente sui tempi di ritorno degli investimenti. Oggi potrebbe accadere lo stesso con i data center, esponenzialmente accelerati dalle aspettative sull’intelligenza artificiale.

Sul piano macroeconomico, c’è chi teme un effetto spiazzamento: i capitali che oggi si riversano su data center e intelligenza artificiale rischiano di prosciugare risorse ad altri settori chiave, dalla manifattura tradizionale all’energia, dai trasporti alla sanità digitale, frenando persino i piani per rilanciare la produzione industriale negli Stati Uniti.

A differenza di infrastrutture come ferrovie o reti di telecomunicazioni, concepite per durare decenni, i data center, inoltre, hanno vita breve, si svalutano in fretta e richiedono aggiornamenti continui. Il loro impatto sull’occupazione è modesto e il modello, assetato di capitali, rischia di restare volatile a lungo, con un effetto incerto sulla crescita economica.

Il paradosso del successo

Il paradosso più stridente di questa trasformazione riguarda il timing. Le aziende più ricche del mondo stanno abbandonando i modelli di business più profittevoli della storia proprio nel momento del loro massimo successo. Meta continua a generare miliardi dalla pubblicità, Apple dall’iPhone, Google dalle ricerche. Eppure, investono freneticamente in un futuro incerto, trasformando free cash flow garantito in spese monumentali dall’esito ignoto.

Ma questa apparente contraddizione nasconde una realtà incontrovertibile: i data center in costruzione oggi sono le nuove raffinerie del petrolio digitale, i dati. E come nel caso del petrolio del XX secolo, chi possiede le raffinerie detta le regole del mercato.

L’investimento massiccio in data center rappresenta quindi la più grande corsa all’accaparramento di risorse strategiche dai tempi della conquista delle riserve petrolifere.

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La vera sfida sarà capire se i mercati finanziari e l’economia globale riusciranno a sostenere il ritmo serrato di questi investimenti senza subire correzioni dolorose. Nel frattempo, appare sempre più indispensabile continuare ad esplorare come questa immensa potenza di calcolo potrà tradursi in valore concreto per imprese e consumatori.



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