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L’Italia e l’Afghanistan: intervista con Sabrina Ugolini, Ambasciatrice d’Italia a Kabul


Gli eventi successivi alla presa di Kabul del 2021 e le modalità di stabilimento dell’Emirato Islamico in Afghanistan hanno in parte sorpreso la comunità internazionale, che ha assistito a una progressiva erosione degli impegni assunti dai Talebani in occasione della firma degli accordi di Doha, in particolare sui temi del rispetto dei diritti umani e del criterio dell’inclusività nella formazione di un governo. È stato quindi sicuramente necessario rielaborare un nuovo approccio diplomatico nei confronti delle autorità de facto, che tenesse conto da un lato della determinazione di mantenere una linea di fermezza su questi aspetti, da un altro dell’importanza di lavorare all’individuazione di possibili finestre di negoziato e di dialogo. In questa prospettiva è nato il Processo di Doha, una roadmap a guida Nazioni Unite del quale l’Italia è parte, e ove il nostro Governo persegue l’obiettivo della reintegrazione dell’Afghanistan nella comunità internazionale, quale Paese in cui siano soddisfatte condizioni minime di pace, di inclusività e di rispetto degli obblighi internazionali, fra cui i temi cruciali dei diritti delle donne e dell’istruzione delle ragazze.

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Dall’estate 2021, la nostra ambasciata per l’Afghanistan ha sede a Doha, in Qatar. Quali le principali attività svolte?

La ricollocazione della sede a Doha, analogamente a quanto fatto da altri Paesi, fra i quali Stati Uniti ed altri partner europei, risponde ad una serie di finalità: essere presenti in una capitale del dialogo e della mediazione, dove si era già insediato da anni l’Ufficio politico dei Talebani, che ha da poco coniugato le sue funzioni con quelle della rappresentanza diplomatica afgana in Qatar; coordinare la nostra azione con quella degli altri Paesi operanti da Doha, con i quali siamo in costante contatto per monitorare l’evolversi della situazione politica ed umanitaria e per definire posizioni comuni, in linea con le analisi e le informazioni che Unama, la Missione delle Nazioni Unite presente a Kabul, ci fornisce dal territorio; ancora, svolgere un ruolo attivo nel Processo di Doha, che ha di fatto portato nella capitale qatarina le dinamiche di politica internazionale che ruotano attorno all’Afghanistan, profilandoci nel cosiddetto engagement, un tentativo di interlocuzione strutturata, pragmatica, con le autorità de facto. Concretamente questo avviene anche attraverso la nostra partecipazione ai Gruppi di lavoro tematici delle Nazioni Unite, dedicati al settore privato e al contrasto al narcotraffico, nei quali abbiamo avviato un confronto con i Talebani per individuare buone pratiche e incoraggiare un avvicinamento virtuoso alle possibilità di cooperazione in settori di interesse comune.

Oltre a questa dimensione di lavoro multilaterale e ad altri aspetti di natura bilaterale, la Sede coordina, in linea con gli orientamenti della Farnesina, la definizione delle modalità di intervento umanitario e la gestione dei movimenti in territorio afgano degli italiani impegnati nelle organizzazioni della società civile, in applicazione dei protocolli di sicurezza previsti dall’Unità di Crisi.

Il Paese soffre una grave crisi umanitaria, mentre gli aiuti sono in diminuzione. Quale il ruolo della comunità internazionale, per affrontare la crisi? E quale il contributo del governo italiano?

Sì, è una crisi umanitaria gravissima, che porta oggi a 23 milioni di persone, su 40 milioni di abitanti, la quota stimata della popolazione che vive sotto la soglia di povertà. Nella fragile realtà socioeconomica di uno dei Paesi più poveri del mondo si è infatti innestata la chiusura dei tradizionali canali di cooperazione allo sviluppo, interrotta per l’assenza di relazioni con il governo locale, e da ultimo la sospensione del consistente aiuto umanitario degli Stati Uniti e il nuovo recente dramma dell’ondata di cittadini afgani espulsi dall’Iran e dal Pakistan.

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La comunità internazionale non ha tuttavia abbandonato l’Afghanistan e il sostegno alla popolazione locale, veicolato principalmente attraverso le Nazioni Unite, è ora in fase di revisione nell’ambito della conferenza dei donatori, l’Afghanistan Coordination Group, del quale l’Italia è parte, che punta a una razionalizzazione dell’architettura dell’aiuto umanitario. In questo il Governo italiano è attivamente impegnato, per esprimere vicinanza e solidarietà alla popolazione afgana, con livelli di assistenza finanziaria costanti anche nel 2025, a fronte di una generalizzata tendenza alla riduzione degli interventi.

Quali le attività principali della nostra Cooperazione allo sviluppo?

Non parliamo di “cooperazione allo sviluppo” in senso tradizionale, per le ragioni che le spiegavo, ma di aiuti di natura umanitaria, finalizzati a rispondere ai bisogni primari e a sostenere le fasce più fragili di una popolazione che soffre. È una visione di solidarietà della nostra diplomazia che il Vicepresidente del Consiglio e Ministro degli Esteri Antonio Tajani ha recentemente ribadito in Parlamento, rispondendo nel marzo scorso a una interrogazione sulla questione dei diritti delle donne e delle ragazze in Afghanistan. In questo spirito si colloca il nostro aiuto, suddiviso tra canale multilaterale (agenzie specializzate delle Nazioni Unite e lo Special Trust Fund for Afghanistan, ma anche Comitato Internazionale della Croce Rossa, che svolge un’azione preziosa in materia di sminamento) e canale bilaterale, portato avanti con coraggio e competenza da alcune Ong nazionali che operano nei settori della salute, del sostegno alle donne e delle persone vulnerabili.

L’Afghanistan sembra ormai pienamente rientrato nell’orbita economica e diplomatica dei Paesi della regione, che adottano un atteggiamento più pragmatico rispetto ai Paesi euro-atlantici. Riconosce questa divisione? Ritiene sia deleteria, per l’Afghanistan e per una risposta univoca ai problemi che affliggono la popolazione?

Non definirei “deleteria” la politica regionale di alcuni Paesi, che hanno esigenze geopolitiche differenti, quali stabilità, transito e sicurezza, oltre che interessi economici e commerciali locali. L’orientamento dei Paesi europei è primariamente ispirato al perseguimento del rispetto degli obblighi internazionali, al cruciale tema dei diritti delle donne e dell’istruzione delle ragazze, che vediamo come un dramma non solo sotto il profilo dei principi ma anche in una visione prospettica di medio-lungo termine, quale privazione del contributo femminile alla formazione della ricchezza nazionale, economica e sociale. In questo il nostro coordinamento con i Paesi europei è costante, per l’affermazione di valori condivisi nella nostra appartenenza a un sistema di democrazia e di tutela delle libertà civili fondamentali.

La Germania ha recentemente rimpatriato alcuni cittadini afghani. L’Italia ha invece rinnovato i corridoi umanitari. Quanto è importante mantenere aperti i canali per gli afghani e le afghane?

Siamo in presenza di situazioni di partenza difformi e di sensibilità differenti. L’impegno dell’Italia nei corridoi umanitari, rinnovato recentemente da Sant’Egidio e da altre importanti realtà associative in collaborazione con il Maeci e il Ministero dell’Interno, permette di affermare un volto solidale della nostra azione internazionale, a beneficio di nuove prospettive di vita per i beneficiari. Pur nelle difficoltà di organizzare questi canali, il loro mantenimento è fonte di speranza e di riscatto.

Una parte della diaspora afghana sostiene non solo che l’Emirato non vada riconosciuto formalmente, ma che non occorra neanche dialogare con le autorità di fatto. Altri invece sostengono che il dialogo sia essenziale, anche per mantenere aperti i canali con il Paese. Lei, cosa ne pensa?

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Comprendo la genesi dell’intransigenza di alcune componenti della diaspora, ma chiudere i canali di dialogo oggi significherebbe decretare l’abbandono della popolazione afgana, consegnandola a un futuro di incertezza e di instabilità. Non credo siano questi i metodi della diplomazia: dobbiamo sempre perseguire obiettivi di confronto, anche minimi e settoriali, nella maggiore ambizione di ricondurre l’Afghanistan nello scenario internazionale.



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