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Chi ha guadagnato? Clan, cemento e opportunità perdute



di Francesco Mazzarella

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Il nodo più oscuro

Nel cuore dell’affaire “Sofocle” si nasconde una delle questioni più delicate e meno esplorate: la possibile infiltrazione mafiosa nel progetto. Nonostante l’apparenza di un’iniziativa privata di sviluppo economico, gli atti giudiziari, le cronache e le ricostruzioni giornalistiche disegnano un retroscena inquietante. Nomi, società e capitali si intrecciano con storie di sequestri, indagini per mafia, e una fitta rete di interessi che porta direttamente al clan Laudani, una delle famiglie storiche della criminalità organizzata etnea.

Le imprese coinvolte

Al centro dell’inchiesta figura la SICEP S.p.A., impresa con sede a Belpasso, leader nel settore della prefabbricazione edilizia in Sicilia. La SICEP fu l’impresa costruttrice del centro “Sofocle”, oltre che azionista di riferimento della Società Immobiliare Sofocle S.r.l., il soggetto formalmente responsabile del progetto.

Secondo numerosi atti giudiziari, il nome di Francesco Civello, titolare della SICEP, è comparso in più indagini. Nel 2010, la Direzione Investigativa Antimafia dispose il sequestro di beni per oltre 20 milioni di euro a lui riconducibili, poi in parte restituiti. Civello fu accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, con riferimento ai suoi rapporti con il clan Laudani, ma il procedimento si concluse con un’assoluzione per insufficienza di prove.

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Al suo fianco, un altro nome chiave: Michele Scuto, socio della SICEP e parente diretto di Sebastiano Scuto, ex parlamentare UDC e considerato dalla magistratura uomo di fiducia della cosca. Le sue società furono più volte collegate a operazioni sospette nell’edilizia pubblica e privata in tutta la Sicilia.

Le infiltrazioni del clan Laudani

Il clan Laudani, detto anche “i mussi i ficurinia”, è da decenni una delle famiglie più influenti nel traffico di droga, estorsione e investimenti immobiliari tra Catania e provincia. Diversi collaboratori di giustizia hanno indicato l’edilizia come settore strategico per il riciclaggio e il controllo sociale. In particolare, la zona di San Gregorio è da tempo considerata “area grigia”, dove interessi mafiosi e imprenditoriali si sovrappongono.

Secondo la ricostruzione della DIA, già nel 2006 il clan aveva investito denaro in cantieri privati mascherati da operazioni speculative lecite. Il centro “Sofocle”, per dimensione e posizione, rappresentava una perfetta opportunità per capitali non tracciabili.

Silenzi e connivenze

Ma com’è possibile che tutto questo sia avvenuto senza che nessuno dicesse nulla? Perché gli enti preposti al controllo non hanno sollevato dubbi su un progetto così grande in un Comune così piccolo?

Le risposte sono due, e si rincorrono: mancanza di vigilanza e connivenza politica. Nessuna indagine interna del Comune. Nessun parere ostativo ufficiale. Tutti i passaggi autorizzativi sono avvenuti in una zona grigia di responsabilità distribuite, dove le firme si susseguono ma le responsabilità si diluiscono.

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La catena che ha portato alla costruzione del centro è emblematica:

• Progetto presentato da una società privata con fondi opachi;

• Realizzazione affidata a una ditta con legami giudiziari con ambienti mafiosi;

• Autorizzazioni ottenute con il silenzio-assenso o la complicità degli uffici tecnici comunali;

• Nessun organo di controllo regionale ha sollevato questioni formali, nemmeno dopo il sequestro.

Tutto si è mosso nell’ombra della legalità formale, ma fuori dalla legalità sostanziale.

Chi ci ha guadagnato?

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Alla fine, i cittadini ci hanno perso: ambiente devastato, soldi pubblici usati per monitoraggi, relazioni, spese legali. Il Comune si è ritrovato proprietario di un bene inutilizzabile. E chi ci ha guadagnato?

Gli imprenditori che hanno lavorato nel cantiere. I fornitori. I tecnici. Ma soprattutto chi ha riciclato denaro illecito dentro un’opera inutile, trasformando cemento in asset patrimoniali temporanei, poi convertiti in altro.

Le inchieste giudiziarie non hanno ancora fatto piena luce su tutti i movimenti di denaro legati alla costruzione del centro. Ma il sospetto rimane: è stato usato anche per riciclare fondi sporchi? Le procure ci stanno lavorando. Ma il tempo passa, e le prove si dissolvono.

Opportunità perse

Nel frattempo, mentre il cemento si sgretola e il ferro arrugginisce, le opportunità si spengono. In altri contesti, strutture simili sono state trasformate in:

• poli per start-up tecnologiche,

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• spazi sociali per i giovani,

• centri culturali di quartiere,

• campus universitari decentrati,

• orti urbani comunitari,

• hub per l’inclusione socio-lavorativa.

A San Gregorio, nulla di tutto questo. Solo promesse e scuse. I vincoli giudiziari, le incertezze politiche e l’assenza di coraggio amministrativo hanno bloccato tutto. E il mostro continua a vivere, inghiottendo idee e speranze.

Cosa si può ancora fare?

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C’è chi dice che demolire sia l’unica via. Ma il costo è insostenibile.

Altri propongono un concorso di idee pubblico, coinvolgendo Università, architetti, urbanisti, associazioni civiche. Una riconversione a uso sociale, con il supporto di fondi europei, PNRR e investimenti etici. Un progetto coraggioso, con trasparenza totale sui flussi finanziari, appalti aperti, controllo pubblico.

Alcuni comitati civici stanno raccogliendo firme per chiedere una commissione tecnica mista tra Comune, Università di Catania, Regione, Agenzia per i beni confiscati e associazioni antimafia. Un laboratorio civico che non si limiti alla denuncia, ma costruisca alternative concrete.

La memoria non basta

San Gregorio non ha bisogno solo di memoria. Ha bisogno di verità e visione. Perché la storia del “mostro sulla collina” non è solo un errore del passato, ma un’occasione per ripensare il presente.

Trasformare un luogo di vergogna in un simbolo di riscatto non è utopia. È una scelta politica. Una decisione collettiva. Un atto di coraggio.

La domanda è: ci sarà qualcuno disposto a metterci la faccia?

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